La bellezza dentro un profondo dispiacere - Divenire Magazine

3) La bellezza dentro un profondo dispiacere.

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Titolo originale: Ci siamo aiutati

Piange.

Come fanno i bambini.

Mi guarda e le sue lacrime, come sbuffi di lapilli, spuntano dai suoi occhi spalancati. Non nasconde nulla.

Mi travolge sentire il suo dolore, è così trasparente, acuto e spesso. Un effluvio di dispiacere caldo e inevitabile che lascia uscire così com’è, senza pudore.

“Perché Juanita se ne va, papà?”

La domanda è rivolta proprio a me, mi fissa con quel suo sguardo serio, già tanto adulto da non lasciarmi scampo.

Guardo verso mia moglie cercando aiuto, ma lei non stacca gli occhi dalla sua tazza di caffè.

Nessun aiuto da quella parte.

Sbircio allora il piccolino, anche lui ha smesso di mangiare, come sempre finge di stare da un‘altra parte, e invece non si perde un respiro, e anche lui aspetta me.

Lo sapevo anche prima di non poter sfuggire, ma questo giro di sguardi, inutile all’apparenza, almeno mi ha dato il tempo di respirare.

Ora riesco a guardarla di nuovo. Mi vengono gli occhi lucidi e non voglio, io non sono abituato. Non sono bravo come lei, non ancora, a piangere davanti a tutti.

Ci fissiamo ancora per un istante, poi mi alzo da tavola in silenzio ed esco in terrazzo, a guardare fuori.

A cercare dentro la mia memoria il tempo in cui la mia tata è morta.

Piango anch’io finalmente, ma come fanno i grandi, con vergogna, da soli.

Era più di mia madre, lei c’era sempre, era una donna del popolo, era friulana.

Quando ho raccontato di lei ai bambini mia moglie mi aveva rimproverato, aveva detto che non si possono dire queste cose, s’impressionano, sono troppo piccoli per condividere i dolori dei genitori, non è con loro che i grandi si devono confidare.

“Perché Juanita se ne va, papà?”

Mi è venuta dietro e mi ha preso la mano là fuori. Mi interroga seria, lo sa che so. Ci sediamo sulle sedie di ferro l’uno di fronte all’altra e ci guardiamo negli occhi umidi, come a vedere meglio il dolore, adesso siamo due bambini tristi, uno di fronte all’altro, molto seri, molto vicini.“Quando ero bambino io, anche la mia tata a un certo punto è andata via. Io avevo otto anni, ma lei era già vecchia. Lo sai, mi aveva cresciuto lei perché mia mamma era sempre in viaggio.

C’era quando sono nato e mi è stata vicina in ogni momento della mia vita, sempre. Era come fosse mia mamma.

Se mia mamma fosse stata una mamma.”

Non mi trattengo più.

Anche le mie lacrime adesso sono grosse.

“E’ tornata al suo paese quando era diventata troppo vecchia per tenere dei bambini. E non l’ho vista più.

Mi voleva tanto bene e anche io le volevo tanto bene.

Juanita invece se ne va perché ha anche dei bambini suoi ed è giunto il momento che stia con loro, sai sono molto poveri nel suo paese e lei è stata lontana da loro tutto questo tempo per mettere via dei soldi per crescerli e mandarli a scuola.

Anche i suoi bambini le vogliono molto bene e hanno tanto bisogno di lei.”

Mi guarda fisso.

Come fanno bambini.

“Non può portarli qui, potremmo stare tutti insieme?”

Capisce di aver detto una cosa impossibile, un piccolo bel tentativo.

“Ci ricorderemo di lei. Le daremo delle fotografie, le potrai regalare qualcosa di tuo per ricordo, e poi andremo a trovarla se vuoi, in Perù.”

I discorsi asciugano gli occhi e li rendono attenti e pensierosi.

“Anche tu sei andato a trovare la tua tata in Friuli?”

“Oh certo, ed è stato bellissimo, sono andato a un suo compleanno, avevo tanta nostalgia di lei e poi quando è morta sono andato al suo funerale.”

“Va bene, in fondo noi la mamma ce l’abbiamo e i suoi bambini no” mi dice, prendendomi una mano.

Me la tiene fra le sue per un istante.

Mi sorprende questo gesto, non l’ha mai fatto prima, è da grandi.

Io non ricordo di averlo mai fatto con lei.

Si alza un vento leggero che ci fa un po’ rabbrividire.

Rientriamo in casa, mano nella mano, mia moglie ci guarda, e lei spiega: “Sai mamma abbiamo pianto tutti e due, ci siamo aiutati”.


La riflessione dell’autore: Piangere

Ai grandi le lacrime fanno paura, ma perché se sono così calde? C’è sempre una grande bellezza dentro un profondo dispiacere.
Un inno dolente è pur sempre in laude per chi non c’è più.
E’ il riconoscimento dell’amore a far brillare gli occhi.
E’ vero che il pianto fa gli occhi belli, il fa belli l’espressione del dolore.
La sofferenza, quando è quella vera, crea un vincolo d’acciaio con cui gli esseri umani si sentono uguali, uniti nella stessa frequente condizione di innamorati sconfitti, come dei fratelli, improvvisamente separati.
E’ non c’è nulla da fare se non tenere la mano, nulla da dire se non “anch’io” e aspettare che quello stesso dolore sproni a tornare a vivere.
Passeranno mesi, forse anni, ma se sappiamo soffrire è perché sappiamo amare.

Estratto dal libro “Canti di grazia e di conversione” di Giorgio Piccinino, ILMIOLIBRO, 2013.