Il divano nella mia stanza. L’anima delle cose.

Il divano nella mia stanza. L’anima delle cose.

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Il divano della mia stanza è un po’ sfondato, però nessuno si lamenta. Anzi.

Quando provo a chiedere a qualche paziente se secondo lui o lei è arrivata l’ora di cambiarlo ricevo dei no categorici.

Questi no mi fanno venire in mente i no dei miei figli quando chiedo se posso gettare qualcosa o se posso anche solo spostarlo dal luogo in cui è (ad esempio in mezzo alla stanza per cui bisogna farci un giro intorno per proseguire nel tragitto).

Stessa risposta, stesso no. Categorico.

In effetti faccio fatica anch’io a disfarmene.

Mi commuove il suo essersi incurvato sotto il peso delle emozioni, dei racconti e dei processi delle persone che via via si sono sedute, sdraiate, accovacciate sopra.

Alcuni, quando arrivano, si tolgono le scarpe e si mettono a gambe incrociate. A volte si coprono con una delle copertine che trovano accanto.

Questo divano-mamma che accoglie tutti e tutto, è diventato un luogo sacro. Lo scenario dentro il quale collocare tante storie di trasformazione, di morte e resurrezione in molti casi.

Un divano-sepolcro, dove sono state depositate parti ormai inutili al proprio percorso di vita.

Quante ne ha prese, il poveretto. Calci e pugni. E lui è rimasto lì, a sostenere i passaggi, le prese di coscienza. Come un maestro zen, senza alcun giudizio, solo accettazione e accoglienza.

Come faccio a mandarlo via, a mandarlo in qualche discarica?

Credo che si meriti di trovare un’altra collocazione. Bisognerebbe inventare una casa di riposo per divani dei terapeuti.

Così, ogni tanto, io e i miei pazienti potremmo andare a trovarlo e farci sopra una bel pianto o una risata liberatoria.

Come ai vecchi tempi.