Il sogno e il viandante. L’utilità delle mete irraggiungibili.

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“Ah, dimenticavo: io non ho un sogno”.

Così mi confessa, in chiusura di seduta, una giovane donna.

Non si riferiva, qui, al fatto di non aver sognato di notte, di non avere un sogno da raccontare. Mi stava dicendo di non avere un sogno del tipo “vorrei vivere sull’oceano ai tropici”, “suonare il piano alla Scala”, ma neppure di aver avuto un “da grande farò…” quando era bambina.

É una cosa che mi succede abbastanza spesso ultimamente, incontrare qualcuno senza un sogno. Ma qual è l’utilità di avere un obiettivo di questo tipo, per definizione irrealizzabile?

Una possibile risposta ce la fornisce Eduardo Galeano, nella Finestra sull’utopia (da Parole in Cammino), in cui così descrive l’utopia: “Lei è all’orizzonte. […] Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta di dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’utopia? Serve proprio a questo: a camminare.”

Avere un desiderio, un sogno ha questa utilità: mettere in moto tutto il nostro essere psicofisico. La parola stessa desiderio deriva da “sidera”, il cielo stellato che i marinai guardavano per orientarsi. Così come il viandante notturno per conoscere la sua direzione cerca la Stella Polare, senza volerla raggiungere, noi possiamo inseguire un sogno, anche irraggiungibile, per avere una direzione, per metterci in cammino. Questi sogni sono come il nostro punto cardinale interiore e orientano il nostro viaggio.

C’è da dire un’altra cosa: nei nostri viaggi notturni possiamo incontrare l’altro tipo di sogni. Proseguendo la metafora del viaggio, questi ci aiutano a “fare il punto” sulla nostra mappa personale, capire dove siamo e che strada prendere. E rimetterci in cammino tutte le mattine.