I paradossi che curano

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Quando ho visto per la prima volta Renato sono rimasta colpita dalla sua rigidità: camminava quasi come un robot e non aveva alcuna espressione facciale.

Il racconto di sé e dei suoi problemi è andato nella stessa direzione delle mie impressioni. Renato è un giovane uomo in carriera, sposato, con una bimba. Ha sempre “fatto il suo dovere”, dice, cercando di mettere il massimo dell’impegno nel raggiungimento dei suoi obiettivi. Mi conferma che il livello di prestazione e il controllo su ogni aspetto della sua esperienza sono fattori di primaria importanza per lui.

“Sono sempre stato un tipo un po’ ansioso, ma da qualche mese la situazione è peggiorata: per lavoro devo a volte parlare in pubblico e la cosa sta diventando insopportabile. Non faccio altro che pensare al disagio che proverò la prossima volta e al fatto che i presenti potrebbero accorgersi del mio nervosismo. Immagino di cominciare a balbettare, di non esporre in modo chiaro le mie argomentazioni, di andare nel panico e di finire per abbandonare la sala onde evitare il peggio oppure, vera catastrofe, di sentirmi male davanti a tutti.”

Renato al solo pensiero si agita, comincia a sudare, sente il battito del cuore aumentare.

Ogni tentativo che faccio per iniziare con lui un lavoro di tipo corporeo fallisce: mi rendo conto che Renato è molto “di testa” e prima di familiarizzare con un lavoro più fisico ci vorrà molto tempo. Ma Renato è arrivato all’esasperazione: quando sa di dover parlare in pubblico – e questo succede mediamente una volta al mese – comincia a entrare in fermento già settimane prima. Tanto che è arrivato a perdere il sonno. E più ci pensa, più si agita. Conveniamo che il pensiero, l’anticipazione degli eventi, è la causa più superficiale del suo star male. Ma interrompere quei pensieri sembra impossibile. Come porre fine a questo circolo vizioso?

Poiché Renato ha una forte e apparentemente incrollabile componente razionale, decido di sfidare le sue premesse. Non riesce a non pensarci perché, dice, è più forte di lui? Benissimo, gli chiedo di farlo intensamente e dettagliatamente, per venti minuti, 3 volte al giorno, anche quando non ha in programma conferenze.

Renato mi guarda un po’ perplesso, ma poi commenta: “Sarà facilissimo, lo faccio ogni giorno molto più a lungo dei 20 minuti! Non credo che servirà a molto…ma lo farò”.

Ci siamo rivisti dopo 15 giorni. Renato per la prima volta mi ha sorriso. Mi ha detto che, non sa cosa sia successo, ma il pensiero ossessivo sul parlare in pubblico lo ha abbandonato. Certo, è rimasto in lui il timore di fare brutta figura, ma quel rimuginìo che gli toglieva il sonno è sparito, come per magia.

Cosa è accaduto?

La mia scelta di prescrivere a Renato il sintomo lo ha messo in una situazione paradossale: seguendo la prescrizione, infatti, egli ha messo in atto volontariamente il sintomo, rendendosi implicitamente conto di non subirlo ma di poter agire attivamente su di esso…e il sintomo ha perso la sua efficacia, è diventato solo un compito fastidioso e intollerabile. Il circolo vizioso del pensiero intrusivo e ricorrente è stato spezzato. Questa manovra strategica ha inoltre fatto breccia nella facciata rigida e apparentemente inattaccabile di Renato: qualcosa che non ha esattamente compreso – e quindi controllato – ha avuto un effetto benefico su di lui. Ora sembra che Renato sia più fiducioso nei miei confronti e disponibile a esplorare anche aree che inizialmente, a suo modo di vedere, non erano rilevanti.

Ma, come si sa, il sintomo non è che la punta di un iceberg e la prescrizione del sintomo ci ha permesso di smettere di girare continuamente attorno a questa punta, come se fosse l’unica realtà esistente, e cominciare a guardare sotto…