Un’esperienza da registi: ri-creare la propria realtà

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Sandra lavora con me da qualche mese su alcune esperienze traumatiche vissute nella sua infanzia. Un giorno mi porta un sogno ricorrente, che fa da quando era ragazza, e che per diverso tempo l’ha perseguitata, ogni notte. Anche oggi, di tanto in tanto, la sveglia nel cuore del sonno e ci vuole parecchio prima che, con l’aiuto di suo marito, lei possa calmarsi. La narrazione è semplice e chiara: Sandra è in casa, sente dei rumori ma, improvvisamente, tutto diventa buio e lei non riesce a capire cosa stia accadendo, se ci sia qualcuno, si sente paralizzata e terrorizzata.

A livello conscio stiamo lavorando sulle sue risorse per ripristinare il suo senso di sicurezza e di potere personali. Ma poiché in questo caso si tratta di un sogno, decido di accedere a un livello di lavoro più implicito e simbolico. Le chiedo quindi di chiudere gli occhi, immergersi nel sogno, che conosce così bene, e descrivermi che cosa sente.

Sandra impiega qualche minuto per “rientrare” in quella scena e mi accorgo subito quando è “dentro”: si irrigidisce, la respirazione diventa più superficiale, appare un’espressione di angoscia sul suo viso.

Le chiedo di raccontarmi qual è la sensazione più disturbante che sta provando in questo momento, a livello corporeo. Mi dice che è la sensazione di immobilità, per via della paura e del fatto che tutto, attorno a lei, è buio.

“Ascolta bene, Sandra: in questo momento, all’interno della scena che stai vivendo, che cosa cambieresti? Proprio come se tu fossi la regista di un cortometraggio e potessi decidere come far procedere le inquadrature…”.

Sandra: “Sicuramente accenderei la luce, mi guarderei attorno, e mi muoverei…”.

Io: “Puoi farlo? Intendo puoi farlo accadere nella tua mente, viverlo nella tua immaginazione, ora? Fai tutto ciò che ti farebbe sentire meglio in quella scena”.

Sandra annuisce. Posso osservare il suo cambiamento: il corpo si ammorbidisce, il volto si rilassa, appare perfino un sorriso sulle sue labbra.

“Sì! – esclama – accenderei la luce e andrei verso la porta di casa…e potrei vedere il mondo, là fuori, e respirare…”. Il suo torace si gonfia d’aria, sembra euforica, l’euforia che arriva dopo il terrore, quando sentiamo che ce l’abbiamo fatta.

Io: “Ottimo Sandra, ora ti chiedo di individuare una parola che possa descrivere tutto questo, che racchiuda il senso di ciò che hai provato, del processo che hai vissuto, con gli occhi della mente”.

“Libertà! Direi che la parola più adatta è proprio libertà”.

Io: “Vorrei che tu raccontassi a tuo marito l’esperienza che hai fatto oggi, con me, e che gli chiedessi, se ti dovesse capitare ancora di fare quest’incubo, di aiutarti, ricordandoti in quel frangente la parola libertà”.

Sandra sembra sbalordita e meravigliata dalla semplicità e allo stesso tempo dall’intensità dell’esperienza che ha fatto in seduta. Ha potuto modificare l’esito del suo incubo e ne è rimasta incredibilmente sorpresa: l’ha invasa un senso di forza, di speranza e di euforia che non credeva possibili.

Le spiego che, quando riusciamo a immaginare intensamente qualcosa, immedesimandoci profondamente in essa, nel nostro cervello si attivano le aree pressoché identiche a quelle che si attiverebbero se facessimo davvero l’esperienza. È il principio che ha fruttato tanto successo ai film o alle animazioni in 3D.

La sua mente, quindi, ha potuto per la prima volta individuare e vivere un esito diverso di quella scena angosciante. Ciò ha accresciuto il suo senso di potere personale e di efficacia, arrivando a farle sperimentare il “pronking”, una risposta di esultanza che si può osservare, nelle gazzelle della savana, quando sfuggono al predatore.