Anche gli psicologi piangono - Divenire Magazine

Anche gli psicologi piangono. L’umanità del terapeuta nel processo di guarigione.

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Nulla che sia umano, mi è estraneo.

 

Publio Terenzio Afro

Potrebbe essere il titolo di un serial Tv e credo che potrebbe avere un discreto successo. Dopo “Anche i ricchi piangono”, “Anche gli Psicologi piangono”.

Scherzi a parte, mi accade spesso di ricevere commenti, non privi di una certa soddisfazione, relativi ai miei stati d’animo: “allora, anche gli psicologi piangono!”.

“E per fortuna!”, mi viene da rispondere.

Quando inizio a conoscere un nuovo paziente mi informo sempre sui motivi che l’hanno spinto a scegliere proprio me: le risposte sono utili nel comprendere quali fantasie e aspettative accompagnano la richiesta d’aiuto. Nel raccontarmi di ciò che lo ha portato a fissare un appuntamento, di un sentito dire o dei colori dei miei occhi o delle cose che ha letto, quella persona mi sta dicendo di cosa ha bisogno e cosa le è mancato. Per questo motivo, ad esempio, dedico molto tempo nel comprendere cosa non ha funzionato qualora abbia già fatto precedentemente dei percorsi terapeutici con i colleghi. A volte le aspettative sono talmente distanti da ciò che io sono e sento di poter offrire, che è per me motivo di sollievo e di protezione poter dire che forse non sono la persona adatta. Mostrarmi nel mio limite ha spesso un effetto da un lato disarmante, soprattutto per chi sta cercando una terapeuta di plastica (qualcuno sa se hanno fatto anche la Barbie Psicoterapeuta?), e paradossale dall’altro: le persone si rilassano e si permettono un po’ di fiducia.

In particolare ricordo Micaela che raccontò di avermi vista piangere durante una conferenza di Chandra Livia Candiani: “Il fatto che non temesse di mostrare in pubblico il suo stato d’animo mi ha convinta più delle sue conferenze a venire da lei. Ho pensato che fosse umana e ho sentito che avrei potuto fare altrettanto senza sentirmi ridicola”.

Questa visione dello Psicoterapeuta come qualcuno che si ponga al di là del bene e del male, che come un dio sa cosa è bene e come praticarlo nasce forse da percorsi formativi in cui quando si parla di sofferenza si intende sempre quella degli altri, ovvero dei pazienti. In effetti il rischio di porsi al di là della sofferenza, come se questa non ci riguardasse o fosse qualcosa che abbiamo “superato” è una seduzione molto invitante che permette di mettersi al sicuro come dietro un camice o un vetro.

Così anche i pazienti si sono creati l’idea che se il terapeuta esprime le proprie emozioni perde di credibilità. Io stessa l’ho pensato per anni e creduto che nascondendo le mie emozioni avrei nascosto la mia paura di deludere il paziente nelle sue aspettative e soprattutto che sarei apparsa come poco competente e non all’altezza del ruolo. Per questo motivo, era meglio apparire come una specie di Avatar con il quale nutrire l’illusione di poter essere un giorno come me: totalmente in grado di gestire e controllare gli eventi emotivi della propria vita. Una specie di illuminato, insomma.

La mia formazione è quanto di più lontano da questo tipo di approccio: ad una posizione “distante” se ne contrappone una prossimale, userei il termine a me più affine di “coinvolta”.

Al centro di ogni parola, gesto, pensiero, riflessione, atto terapeutico c’è l’obiettivo di stabilire un contatto e una relazione.

Per questo motivo molta parte della formazione, sia prima che dopo il diploma di specializzazione in Psicoterapia della Gestalt, viene dedicata al lavoro su di sé e sul proprio malessere.

L’ottica esistenzialista di Kierkegaard che sottende all’approccio della Gestalt, infatti, affermava che il malessere è una condizione umana ed un diritto sacrosanto. L’angoscia non è vista come il segnale di qualcosa di patologico in atto, ma come la naturale risposta al caos che si crea dentro di noi, man mano affrontiamo le cose della vita, in particolare quelle di natura interpersonale.

Prima dell’esistenzialismo c’era l’idea che chi soffriva era anche un po’ colpevole. Insomma la capacità di soffrire non era un buon biglietto da visita e, visti i commenti che mi arrivano ogni tanto, direi che questa attitudine a negare la sofferenza come diritto al malessere sia qualcosa di ancora molto attuale.

Abbiamo l’illusione che se faremo le cose bene ci metteremo nella condizione di non soffrire più, così pensiamo che se lo psicoterapeuta che ha studiato e sicuramente sa come fare tutto per benino piange, allora a cosa serve fare psicoterapia?

Questa illusione ci mantiene lontano dalla nostre fisiologiche paure e per questo tendiamo a negare e, parafrasando una canzone di Gaber, a far finta di essere sani.

Molto lavoro psicoterapeutico ha in realtà l’obiettivo di supportare le persone a cimentarsi con la propria umana e inevitabile sofferenza. A togliere il tappeto sotto il quale è stata nascosta l’angoscia e la fisiologica fatica del vivere.

La famosa alleanza terapeutica tra terapeuta e paziente serve inizialmente proprio a questo: come una corda, essa permette di sentirsi “tenuti” e supportati mentre ci si addentra nei propri personali inferni. Vi fidereste di una guida speleologica che ha studiato sui libri e non è mai scesa in un cunicolo? La risposta è ovvia e ci aiuta nel comprendere perché la forza di un terapeuta consiste proprio nelle esplorazioni che lui stesso ha saputo fare del proprio dolore e delle proprie ombre.

Solo così il terapeuta può offrire una vicinanza empatica credibile al paziente: egli sente che ciò che racconta, vive, disvela è qualcosa che non è estraneo al suo terapeuta. Che davvero lui o lei è lì e partecipa autenticamente alle emozioni che via via emergono.

L’obiettivo principale di tutto questo lavoro esplorativo ed espressivo del proprio dolore è la consapevolezza, non certo il perfezionismo.

Perché la funzione principale della sofferenza è questa: ricordarci di noi, obbligarci ad evolvere e, in ultima analisi, a sentirci vivi.

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