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Vittimismo e senso di inadeguatezza. Dall’ansia alla vergogna e ritorno.

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Amare se stessi
Significa iniziare una storia d’amore
che dura tutta la vita.
Oscar Wilde

La vergogna è quella emozione che si manifesta quando ci sentiamo sbagliati, in difetto, inutili. Appare quando non ci sentiamo all’altezza, quando ci giudichiamo continuamente e ci paragoniamo agli altri.

Quando siamo in questo stato d’animo perdiamo la direzione della nostra vita ed insieme il contatto con le nostre qualità e i nostri punti di forza.

Questo profondo senso di disconnessione dalla nostra esistenza, se protratto nel tempo, ci porta a sentirci in ansia e possiamo, quindi, entrare in crisi.

In alcuni casi si possono scatenare dei veri e propri attacchi d’ansia generalizzata, se non addirittura degli attacchi di panico.

Quando ci sentiamo così tendiamo ad uscire ancora di più da noi stessi e cercare fuori di noi degli “appigli”: come naufraghi in mezzo al mare interiore agitato, ci concentriamo su come gli altri vorrebbero che noi fossimo.

In questo modo la nostra vita inizia a dipendere dal consenso degli altri, a cui tendiamo sempre più, diventando molto sensibili alle critiche e quindi facendo con maggior frequenza esperienza di vergogna.

Gli “attacchi di vergogna” sono esperienze acute in cui sentiamo di perdere improvvisamente autostima, sicurezza, speranza, entusiasmo, energia e amore per la vita in generale.

Quando, invece, la vergogna diventa cronica, non c’è quasi mai una vera e propria causa scatenante. Non sappiamo identificare perché ci sentiamo come dei colabrodi: l’energia sembra disperdersi facilmente, sentiamo cronicamente ansia e stanchezza, ci sentiamo assediati dalle paure e dalle idee negative, diventiamo lamentosi e sul viso si dipinge una smorfia di disgusto.

La via più spontanea per difendersi da questa terribile sensazione di “rifiuto” dal mondo, consiste in comportamenti cosiddetti “compensatori”.

Romina, ad esempio sceglie la via del VITTIMISMO.

Da un po’ di tempo, Romina, inizia le sue sedute con un elenco infinito di lamentele. Si lamenta di suo marito, perché non l’aiuta con la casa e con i bambini, si lamenta dei suoi bambini, perché sono troppo “ribelli” e litigiosi, si lamenta dei suoi colleghi perché “fanno i loro comodi” a sue spese, si lamenta delle sue amiche perché la escludono e la guardano dall’alto in basso facendola sentire una pezzente, si lamenta del suo stato di salute, perché ha continuamente sintomi fisici.

Questo costante autocommiserarsi del fatto che la vita e gli altri siano ingiusti perché non ci apprezzano o perché ci ignorano è un modo molto efficace per non sentire il profondo senso di inadeguatezza che ci tormenta.

Spesso il VITTIMISMO si associa anche ad altri tipi di comportamento, come l’assuefazione (Romina ha un disturbo del comportamento alimentare), la rinuncia, ovvero arrendersi o evitare di correre dei rischi per non affrontare la possibilità di una sconfitta, l’isolamento, ovvero rifiutare gli altri prima che siano loro a farlo, e l’esercizio di potere e controllo sugli altri. Romina, infatti, tende a strafare e a sostituirsi agli altri salvo farlo pesare e rinfacciare alla prima occasione attraverso silenzi manipolatori che possono durare giornate intere.

“Romina”, intervengo interrompendo lo sfogo, “sono attratta dal suono che attraversa le sue parole. Non sembra tanto un lamento quanto una sorta di ringhio. Una cosa così”. Cerco di riprodurre con la mia voce il suono che percepisco ed osservo l’impatto su di Romina, che sembra congelarsi: il corpo si è notevolmente irrigidito, gli occhi sono sbarrati ed il viso è pallido.

Lo sguardo di Romina mi guarda come per dirmi “tirami fuori da qui” e decido di rimandarglielo: “Romina, ho la sensazione che la mia osservazione l’abbia profondamente scossa, se non addirittura spaventata”.

Romina annuisce con il capo. Questo rispecchiamento deve farle sentire un po’ meno persa perché emette un forte sospiro. La mia paziente sembra essere in uno spazio più sicuro di prima. “Romina, il fatto di aver colto il suo sentire sembra averla tranquillizzata un po’. Le va se continuiamo ad esplorare cosa sta accadendo dentro di sé in questo momento?”.

La buona alleanza con Romina mi consente di proporre un lavoro di contatto con il proprio respiro che le permette di entrare dentro di sé e di esprimere con le lacrime tutta la tensione che avverte.

“Romina”, le dico quando ritrova uno stato di compensazione ed appare visibilmente più disponibile e ricettiva, quando abbiamo degli attacchi di vergogna è facile che ci sentiamo sopraffatti. Tanto meno abbiamo la consapevolezza di ciò che stiamo provando, tanto più non ci sentiamo in grado di contenere qualcosa che ci sembra strabordare ed uscire dal nostro controllo.

“Ora che è più tranquilla, perché ho fatto io da contenitore rassicurante, in attesa che Lei stessa possa sviluppare questa capacità e farlo in autonomia, la invito a tornare al momento della seduta in cui io le ho fatto sentire il ringhio: cosa ha sentito?”

“Non lo so. Mi sono sentita come messa al muro. Forse ho avuto paura”.

“Bene, Romina, c’era qualcosa di spaventoso nelle mie parole?”

“Non erano le sue parole. Ho associato il ringhio ad un animale selvaggio e l’idea di essere una specie di bestia mi ha terrorizzato”.

“In fondo noi esseri umani siamo degli animali evoluti, ognuno di noi ha una parte istintiva e animalesca…”

“Si”, dice manifestando nuovamente la maschera di terrore sul viso, “ma certe persone possono diventare delle bestie per davvero!”, dice scoppiando in lacrime.

Appoggiando cautamente una mano sulla sua spalle, le chiedo: “Ne ha fatto esperienza?”.

Romina racconta di essere stata oggetto di violenza passiva da parte dei genitori che la esponevano a litigi e ad atteggiamenti promiscui. Era un’informazione che aveva già condiviso, ma ora Romina sembra avere più contatto con le sensazioni di quei momenti.

Nel qui e ora della relazione, il passato irrisolto si affaccia. Ciò che Freud chiamava il “ritorno del rimosso”, abitava la relazione tra me ed Romina ed è bastato porci attenzione per risalire all’origine di un vissuto autentico di vittima. Romina si portava dietro una rabbia trattenuta nel corpo per la ferita alla propria infantile innocenza, e quel riconoscimento adulto, quello sguardo empatico di vicinanza che manipolatoriamente implorava ora non era più estorto ma offerto con autenticità.

Non smetterò mai di stupirmi quanto le porte della nostra guarigione siano a portata di mano più di quanto crediamo e che la chiave per aprirle non sono altro che l’attenzione e la sintonizzazione con ciò che avviene nel presente grazie al rapporto di fiducia tra il terapeuta ed il paziente.