Stefano – 16 anni e terza liceo scientifico – mi è stato inviato in terapia dopo aver concluso con esito negativo l’iter di valutazione per sospetto Disturbo Specifico dell’Apprendimento, ovvero per lui non era possibile parlare né di Dislessia, né di Disortografia e Discalculia, in quanto nessuna delle sue competenze in termini di leggere, scrivere e far di conto risultava deficitaria secondo i risultati dei test.
Stefano a scuola fatica soprattutto con le materie di studio, per lui memorizzare ed introiettare le informazioni è troppo difficile, e gli insegnanti riportano come non riesca ad esprimersi in modo sufficientemente fluido e corretto durante le interrogazioni; spesso a casa si rifiuta o evita di studiare, generando così la rabbia dei genitori, soprattutto della madre, con la quale si scontra ed entra in conflitto di frequente.
Dai racconti di Stefano, ma soprattutto da quelli dei suoi genitori, colgo un profondo senso di affanno, di stanchezza: la madre si dichiara provata, sfibrata, sfinita nel dover continuamente spronare e motivare il figlio nello studio, costruire per lui mappe concettuali e schemi di storia, scienze e filosofia, mappe e schemi che Stefano puntualmente non riesce a memorizzare e non ricorda, alimentando il senso di frustrazione della madre ed il suo. Rimango colpito dal mio sentire difronte alla spiegazione ed al racconto di tale dinamica, al punto che mi chiedo chi sia più in difficoltà a scuola dei due: Stefano o la madre? Chi è in realtà lo studente provato e spossato? La mamma o il figlio?
I genitori di Stefano mi raccontano la loro storia personale: concentrati su questo figlio unico ed arrivato tardi nella vita di entrambi, il padre è manager per una grossa multinazionale, e trascorre gran parte del tempo fuori casa per trasferte e viaggi di lavoro, ed ha anche lui alle spalle un difficile trascorso scolastico, connotato da diverse bocciature e sospensioni; la madre, orfana della propria all’età di 8 anni, racconta con orgoglio di essere laureata in fisica, ma di non essere mai riuscita a realizzarsi professionalmente, relegata dal proprio padre padrone nel ruolo di femmina servile, ruolo dal quale si è emancipata solo con la morte di quest’ultimo.
“Io cerco di non prendere voti troppo alti a scuola perché così la mamma non si aspetta tanto da me e la smette di starmi troppo addosso, e comunque io in generale mi diverto quando la faccio arrabbiare” – mi dice Stefano in uno dei nostri primi incontri, come se il suo andare a male a scuola fosse un messaggio alla madre, per comunicarle il proprio desiderio e bisogno che lei abbassi le sue aspettative su di lui, consentendogli di svincolarsi, di provare a farcela anche senza di lei.
Il principale compito dell’adolescente è quello di integrare le sue nuove capacità mentali di astrazione con le sollecitazioni affettive, emotive e pulsionali che provengono dal suo mondo interno e da quello esterno, in modo che possa progressivamente costruire una propria individualità ed identità, elaborando al contempo il lutto per la propria immagine di sé come bambino, dipendente dalle figure genitoriali e dalle loro aspettative e proiezioni.
Nelle vicende simili a quella di Stefano e dei suoi genitori, il dato costante che riscontro è la presenza di un disturbo dell’apprendimento in adolescenza, talvolta solo sospettato, ma ancor più spesso diagnosticato in modo errato, a copertura di una fatica emotiva e relazionale nell’affrontare il percorso identitario di crescita ed individuazione. Proprio perché l’atto del crescere e del separarsi è un passaggio evolutivo che fisiologicamente genera angoscia sia nei ragazzi che nei loro genitori, a volte capita che per proteggersi da tale angoscia, gli uni e gli altri ricorrano al pensare ad un deficit, ad una difficoltà specifica a scuola, scuola che viene oggi investita del ruolo di cartina tornasole del proprio successo e riuscita sia come figli che come madri e padri. Ciò è ancora più vero se pensiamo alla vicenda di Stefano e della sua famiglia: la madre, non essendosi mai sentita riconosciuta né come figlia né come moglie, ha sentito il bisogno di iper-investire nel proprio ruolo materno, probabilmente l’unico che le ha consentito di sentire di esistere nella propria vita, caricando allo stesso tempo Stefano di aspettative di riuscita e successo anche scolastico, aspettative che però sembrano scontrarsi con il desiderio del ragazzo di trovarle da sé e per sé delle aspettative sulla propria vita e su chi voglia essere, in modo da sentire lui stesso a sua volta di essere ed esistere. Il sospetto/speranza di avere un Disturbo Specifico dell’Apprendimento soddisfa il bisogno di mamma di continuare ad occuparsi del figlio e di pensare che questo sia un genio incompreso, al punto che condivide la diagnosi con personaggi illustri del calibro di Einstein, Churchill o Tom Cruise, e del ragazzo di dare un senso al proprio fallimento scolastico, all’infrangersi della propria corazza narcisistica infantile che fisiologicamente si verifica in adolescenza.
La conflittualità che si genera tra genitori e figli a causa degli insuccessi scolastici di quest’ultimi spesso altro non è che un tentativo per il ragazzo di affermare la propria opinione – la propria identità per l’adolescente – in un contesto storico e sociale in cui l’ambito degli studi è profondamente caricato di connotati narcisistici.
Lungi da me contestare l’esistenza dei Disturbi Specifico dell’Apprendimento, dato per altro constatato e comprovato da una copiosa mole di studi scientifici nazionali ed internazionali e dai manuali medico-diagnostici, oltre che riconosciuto in Italia dalla Legge 170/2010, tuttavia troppo spesso mi trovo di fronte a diagnosi e certificazioni discutibili, che forniscono un’etichetta di dis– , di deficit oggettivo che però impedisce di vedere ed affrontare una sofferenza emotiva soggettiva.
Il rischio di diagnosi formulate in modo non corretto, soprattutto in adolescenza, è quello di coprire e soffocare l’esercizio attivo e creativo di creazione e costruzione identitaria del ragazzo o ragazza: il ricevere una diagnosi ha per un giovane un impatto emotivo non da poco, e se tale diagnosi è scorretta può impedirgli di intravedere le proprie reali risorse e potenzialità preziosissime per conquistare chi egli o ella realmente sia, mantenendolo relegato nel proprio senso di onnipotenza narcisistica infantile che talvolta risuona all’unisono con le aspettative genitoriali.
All’affermazione di Stefano citata sopra ho risposto: “Sai mi dispiace che tu debba rinunciare a far vedere chi sei realmente per abbassare le aspettative della mamma, credo che tu ti stia chiedendo un sacrificio troppo grande nel privarti di una parte così preziosa di te come la capacità di imparare… Penso che tu non debba necessariamente rinunciare ad apprendere per autorizzarti ad esistere…”