Guardo il mondo da un oblò. La paura di esporsi allo sguardo altrui.

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Ogni fobia risale a un’angoscia infantile e ne è la continuazione, anche quando ha un altro contenuto e deve quindi essere diversamente denominata.
Sigmund Freud

Penso che una metafora mutuata dal mondo della marina, con particolare riferimento all’oblò delle navi, possa ben esprimere un’esperienza che sembra essere trasversale a tanti dei miei pazienti.
L’oblò è una piccola apertura che permette di scrutare l’esterno, ma che nel contempo ci espone ad esso in maniera limitata, dato il carattere di pericolosità e insidiosità che può assumere l’ambiente circostante. Si pensi all’impetuosità del mare o alla pressione atmosferica in alta quota, gli oblò delle navi e degli aerei sono così resistenti da consentirci di guardare fuori senza correre alcun pericolo. Tuttavia lo sguardo è circoscritto a una porzione di realtà.

Fuor di metafora alcune persone sembrano nascondersi dietro ad un “oblò virtuale” terrorizzati all’idea di esporsi al possibile scherno a cui si può essere soggetti nella “pubblica piazza”, la vita di tutti i giorni.
Sono proprio alcune delle parole dei miei pazienti che contribuiscono ad approfondire il concetto appena citato:

Ecco Leonardo che mi dice: «Dottoressa quando inizia la sessione di esami inizia l’incubo, non riesco a studiare, passo le mie giornate su Netflix e mi rifugio nel mio mondo. Quando provo a dedicarmi allo studio penso subito all’esame, e comincio: “Se mi trema la voce? Se il professore vede che sono in difficoltà cosa penserà di me? Non potrò mai più presentarmi a un esame, sarò ormai bollato a vita».

Laura invece racconta: «Ho la mia cerchia di amici, siamo davvero pochi, ci conosciamo da quando siamo piccoli e lì ho imparato a sentirmi tutto sommato a mio agio (almeno ci provo), ma non riesco ad andare oltre. Ogni volta che so che c’è gente nuova comincio a pensare alle tre mila figuracce che farò: “sembrerò una scema, di una goffaggine che lascio solo immaginare”. Alla fine sa che faccio? non vado, me ne sto a casa».

Matteo esprime il suo disagio nel contesto lavorativo: «Un conto era lavorare da casa, ora che sono in azienda mi sveglio con quella cosa che proprio non ce la faccio ad andare, e se sbaglio so già che mi dovrò poi nascondere come un ladro. A volte sto così male che alla fine sto a casa, o se mi costringo ad andare sto sul chi va là, mi sento che mi trema la voce, mi sudano le mani…E se qualcuno se ne accorge? Sai la figura!».

I brevi spezzoni sopra riportati mostrano come Leonardo, Laura e Matteo, così come tante altre persone, provino un timore smisurato e incontenibile nei confronti di situazioni che potremmo definire routinarie: lo studio, andare al bar con gli amici o la giornata lavorativa tipo. È come se avessero costruito un loro personale oblò che li protegge da un pericolo, tuttavia irrealistico. La paura che provano li intrappola dietro a un vetro che impedisce loro di vivere, spaventati dall’idea di essere esposti al giudizio degli altri di fronte ai quali temono di comportarsi in maniera goffa e inadeguata. L’ansia anticipatoria che precede le condizioni tanto temute e i forti stati emotivi, ormai compagni di vita, li portano ad evitare tutte quelle esperienze interpersonali in cui possono essere esposti allo sguardo altrui. Il nucleo problematico non riguarda esclusivamente il loro “essere all’altezza”, ma il loro essere come individuo.

La relazione terapeutica può rappresentare quello spazio neutro e non giudicante dove la persona può provare ad esplorare i propri vissuti e le emozioni che sperimenta nel rapporto con il terapeuta. Sarà possibile guardare all’ansia, alla paura del giudizio altrui, all’imbarazzo e all’essenza del proprio essere con uno sguardo altro, facendone esperienza diretta in un assetto relazionale differente che, col tempo, permetterà di andare alla radice del proprio disagio.