abbraciamoci

Una sofferenza senza parole. La presenza che cura.

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Simona mi interpella via mail, raccontandomi brevemente il motivo della sua richiesta di aiuto e cercando in me e nel mio modo di lavorare (chiede delle sessioni di Somatic Experiencing) una rassicurazione rispetto alle sue paure: dover affrontare i suoi fantasmi più spaventosi e il terrore di non uscire dal vortice di sofferenza in cui si sente risucchiata.

La modalità di contatto scelta da Simona, un’email, mi dice già molto di lei e dei suoi timori: percepisco il suo primo incerto tentativo di avvicinamento come una sorta di “test”. Simone desidera disperatamente stare meglio, lavorare su di sé, ma teme di essere sopraffatta dai suoi vissuti emotivi. Mi sta implicitamente ma chiaramente chiedendo, attraverso la sua richiesta, di “andarci piano”, di aver bisogno di accostarsi in modo graduale alla sua sofferenza, e anche a me.

Io e Simona ci incontriamo dopo un paio di settimane: è una donna minuta, dall’aria spaventata. Quando si siede, in poltrona, non si appoggia allo schienale, ma rimane seduta “a metà”. Sebbene il suo corpo sia rivolto verso di me, quando mi parla ruota il capo verso destra, costringendola a guardarmi “di traverso”, quasi con la coda dell’occhio. Mi viene in mente l’espressione latina “obtorto collo”, a indicare un vissuto di costrizione, un’imposizione. Sembra che Simona sia lì con me ma che, per qualche verso, si stia forzando ad esserci.

Le mie impressioni non tardano ad avere conferma: Simona mi spiega di aver cercato me proprio per il metodo di lavoro in cui sono formata: Somatic Experiencing. Sa che questo approccio è corporeo, non necessariamente narrativo, e la cosa la rassicura molto. Mi spiega che, al momento, per lei sarebbe sopraffacente raccontare alcuni episodi della sua infanzia che stanno emergendo, per la prima volta, come flashback. Non potrebbe nemmeno farlo, per la verità, perché ha solo dei frammenti di memoria confusi, annebbiati, che però sono stati sufficienti a gettarla in un profondo stato di angoscia.

Ciò che mi chiede, e che per qualche altro terapeuta che ha precedentemente contattato ha rappresentato un limite insuperabile, è di lavorare sul suo passato senza verbalizzarlo, almeno per il momento.

La dimensione della narrazione, della parola, sono per ora troppo attivanti per lei. Non potrebbe tollerarle.

Comprendo profondamente la sua richiesta disperata di aiuto, un aiuto sensibile, delicato, che abbia cura dei suoi abissi interiori e che possa avvicinarli in modo graduale. La rassicuro sul fatto che, se per il momento non vorrà, non avrà bisogno di dare parola ai suoi ricordi, ancora confusi e troppo angoscianti.

Ciò che potremo fare assieme, in una prima fase, sarà lavorare sulle sue risorse e sulle sue capacità di autoregolazione e di contenimento, per poi accedere alle emozioni più penose, che a quel punto sarà maggiormente in grado di contattare ed elaborare. Somatic Experiencing ci permetterà, attraverso un lavoro gentile di tipo corporeo, di rimettere mano ai suoi vissuti senza forzature e ri-traumatizzazioni.

Simona accoglie le mie parole con grande sollievo: per la prima volta si appoggia completamente alla sedia, vi si abbandona e scoppia in un pianto irrefrenabile. Mi avvicino cautamente con la mia poltrona alla sua, rassicurandola, e accosto i miei piedi ai lati dei suoi. Dopo un singhiozzare liberatorio, una volta calmatasi, mi guarda e mi dice: “Finalmente non mi sento più sola nel gestire questa cosa…”. “Non sei sola, Simona, io sono qui con te, al di là delle parole…”.