Qualche giorno fa, ascoltando la radio in uno dei miei spostamenti quotidiani, mi è capitato di ascoltare una notizia curiosa, seguita da un commento che mi ha lasciato perplesso e deluso per qualche istante. Abbastanza deluso per darmi lo spunto per una riflessione e la voglia di scriverla.
All’interno del programma, su una radio molto popolare e seguita, viene data la notizia della enorme popolarità su internet di Mark Bryan, ingegnere robotico statunitense, trasferitosi a Berlino, che ha la particolarità di indossare regolarmente, sotto giacca e cravatta, gonna e tacchi a spillo. Li indossa per recarsi al lavoro, fare commissioni, passeggiare. È un uomo sposato, ha una moglie e tre figli.
Spiega la sua scelta con estrema facilità. Gli piacciono le gonne, gli piace l’abbigliamento femminile, lo ammira. Perché privarsi dell’opportunità di indossarlo? Perché farsi limitare da banali stereotipi di genere sull’abbigliamento?
Dopo la descrizione di quest’uomo mi si è aperto un sorriso, ho trovato la sua scelta e il suo modo di vivere un modello di libertà e di apertura incredibile. Anche la semplicità della spiegazione, la naturalezza di quel “mi piace, lo faccio” e la sottolineatura di una differenza di genere puramente culturale, stereotipata e limitante.
Di lì a breve il mio sorriso diventa amaro. La trasmissione aveva un sottofondo comico, ilare e forse non dovevo aspettarmi un finale diverso. Succede, infatti, che la conduttrice immagina che i figli di quest’uomo possano vergognarsi di lui quando li va prendere a scuola o che la moglie possa non essere entusiasta o particolarmente felice di questo suo look.
Mi prende una forte delusione. Sottolineare con entusiasmo la scelta e le parole di Mark Bryan avrebbe chiuso un cerchio che invece è rimasto lì, aperto, provocandomi quel rammarico tipico delle buone occasioni sprecate.
Quello che mi ha colpito è quanto il maschilismo sia presente in modo trasversale, anche in persone di ottimo livello culturale, quanto ancora si confondano stereotipi di genere con le differenze biologiche tra uomo e donna.
Sono i pregiudizi e la cultura prettamente occidentale che hanno individuato nell’abbigliamento e, ad esempio, nei pantaloni, un segno del potere maschile (“Chi porta i pantaloni qui!?”). Dubito fortemente che i Tuareg siano meno uomini perché indossano una tunica blu e un velo davanti al viso. Quanto meno io non andrei a dirglielo in faccia serenamente.
Perché i figli del signor Bryan dovrebbero vergognarsi di lui? O la moglie solo fingere di apprezzarlo? Perché non è un macho? Perché le scarpe coi tacchi le indossi solo se sei donna o una drag queen?
Sono abbastanza sicuro che questa non fosse l’intenzione comunicativa della conduttrice ma, pensandoci bene, la battuta funziona se chi la ascolta possiede delle convinzioni di un certo tipo, è una comicità che si fonda anche su questo: criteri stabili e standard di definizione di quello che è corretto o attraente fare, dire, indossare se sei un uomo.
La pena nel non rispettare gli standard? La vergogna. E qui cito il mio collega Claudio Agosti, che spesso sottolinea nelle discussioni sul disagio maschile proprio come il senso di vergogna, l’imbarazzo, l’impotenza siano le prime cause scatenanti di quello che porta poi alcuni uomini (forse meglio dire maschi) a diventare aggressivi e molto violenti.
Mi viene subito in mente Simone, un mio paziente, un ragazzo sensibile, amante dell’arte e della musica, con il sogno di fare il ballerino. Ma queste caratteristiche e questi desideri per sua madre non sono maschili, troppo pericoloso, penseranno sia gay. Allora ha pungolato precocemente e costantemente il figlio affinché si allontanasse da tutto questo, per indirizzarlo al liceo scientifico e poi ad una laurea in economia e commercio (ovviamente mai raggiunta). Pensate, tra le tante, che permetteva al ragazzo di bersi tranquillamente due o tre rhum e coca prima di uscire con gli amici, a vent’anni, prima di mettersi alla guida. Eh sì! I veri uomini bevono! Ovviamente il corso di ballo era vietatissimo. Simone ora non sa chi è, non si conosce, non si permette di essere sé stesso.
Di sicuro ha un’immensa rabbia in corpo. È un buono, un’anima gentile, ma attacca prima di essere attaccato. Si vergogna di essere diverso da quello che sua madre, la società, vogliono. E allora aggredisce per paura, per difesa. Per fortuna lui non ha mai fatto del male a nessuno ma il rischio c’è per i mille e più altri Simone in giro per il mondo.
Per questo Mark Bryan per me è un grande esempio positivo. Ha una moglie che lo ama, tre splendidi figli e pure un buon lavoro. Ed è un uomo con la gonna.
Se vogliamo che le bimbe giochino con le automobiline e il pallone, se vogliamo togliere il rosa da tutto quello che viene loro proposto, dobbiamo fare altrettanto con il blu e permettere ai maschietti di giocare con le bambole. È così banale, che sembra superfluo sottolinearlo ma se ci pensate bene non è scontato, non è affatto scontato. Le catene che ci legano a modi rigidi di essere sono equamente distribuiti tra uomini e donne e a sostenere l’impalcatura del maschilismo ci sono in egual misura uomini e donne.
Siamo biologicamente diversi e questo si riperquote positivamente sulla generazione della vita (per questo la differenza biologica direi che è fondamentale), sulla crescita dei figli, su una gestione più completa di una famiglia, come di un’azienda o dell’intera società.
La parità tra i sessi è un’altra cosa e si rende possibile liberandosi da tutte le etichettature stupide e superficiali imposte dalla cultura e da abitudini secolari, che limitano la libertà e la potenza delle donne obbligando gli uomini alla prestazione e al successo economico. La capacità di comando e l’ambizione sono distribuite nelle persone indipendentemente dal sesso di appartenenza eppure donne che le possiedono ne vengono spesso tenute lontane e uomini lontani da queste caratteristiche additati come deboli e incitati a esserlo, snaturandosi.
Un uomo non è più forte biologicamente, non sviluppa muscolatura in adolescenza per fare a botte nei vicoli. Accade perché deve difendere la propria famiglia e i membri più fragili della sua comunità. La protezione, per altro, può arrivare in mille modi e, soprattutto nel ventunesimo secolo, senza nessun bisogno della forza bruta.
Se si cura dei suoi cari e del loro benessere è un Uomo.
Con le scarpe coi tacchi, gli scarponi o le pinne è un Uomo.