Donne in ostaggio - Divenire Magazine

Donne in ostaggio

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Depressione. Identità. Lavoro.

Un movimento crescente di donne e uomini sta cercando un nuovo modo di svolgere il proprio lavoro e di vivere la propria vita. Spesso questo desiderio nasce soprattutto in una fase matura della propria esistenza. Condizionamenti passati e convinzioni interne possono però impedire di vedere con chiarezza l’emergenza di nuovi desideri. Così accade che la persona inconsapevole presenti un quadro depressivo fatto di smarrimento e mancanza di motivazione ad impegnarsi nel lavoro come un tempo. Se a livello sociale sarebbe sicuramente di supporto il poter evolvere verso un’idea più circolare ed umanizzante delle carriere e dei percorsi lavorativi, dall’altra è importante sapere che gli ostacoli maggiori, affinché un individuo possa ridefinire i personali parametri di successo in termini di qualità di vita e di significato, risiedono all’interno del mondo psichico di ognuno.

Il colloquio clinico qui proposto, un racconto completamente inventato che prende spunto da tante storie cliniche che ho incontrato negli anni, parla proprio della difficoltà a lasciare andare i propri riferimenti interni per dare ascolto alla necessità di un’evoluzione. Vedremo come facendo emergere i condizionamenti interni, legati principalmente alla nostra storia e poi alla cultura a cui apparteniamo, è possibile iniziare ad aprirsi alla possibilità di lasciare il certo per l’incerto.

Storia di una donna che voleva avere anche una vita.

Dottoressa ho perso completamente il mio amore per il lavoro. Mi sento persa e depressa. Cosa? Che dice? Dovrei rinunciare alla mia identità professionale per recuperare la mia passione? Ma è matta? E’ come chiedermi di rinunciare al mio nome! La mia identità coincide con quello che faccio. Che c’è di sbagliato in questo? La mia carriera è tutto quello che ho, è ciò a cui ho dedicato ogni singolo istante della mia esistenza. I miei pensavano a questo già dall’infanzia. Ho fatto le migliori scuole, ho suonato il violino e fatto danza classica per imparare l’impegno e la disciplina. Grazie a questo ho capito che ci vuole una totale dedizione per raggiungere il successo, altrimenti fallisci. Dirmi di dimenticarmi della mia identità professionale è come dire che dovrei rinunciare anche ai valori imposti dalla mia famiglia. Ah, certo, dottoressa, ho usato il verbo sbagliato. Imposti. Si certo, so dove vuole arrivare. Io sono ancora succube di una legge che arriva dall’infanzia e ancora non ho sviluppato la mia. Come dite voi altri psi? Ah si, sono irretita.

Finirà che è tutta colpa della mamma e del papà se sto’ conciata così. Le sembro arrabbiata? Davvero? Certo che lo sono, con Lei e tutti quelli che vogliono prendersela con la mia famiglia. Io vado fiera di aver fatto un matrimonio come quello della mia mamma e una carriera come quella del mio papà! Sono una dirigente d’azienda ma la mattina non manco di alzarmi per prima e preparare una colazione biologica per tutti, compreso il cane. Bene, ha capito, mi fa piacere che stia zitta. E perché ora piango? Cribbio, che motivo ho per piangere? Ho un lavoro bellissimo, tutti mi stimano, ho un marito e dei figli meravigliosi…dio quanto mi odio, perché sono fatta così male?

E’ tutta colpa mia, solo mia se non sono capace di essere felice. Questo è quanto. Come dice? Quanti anni ho? Quarantasette. Cosa c’entra l’età? Quanti amici ho? Come passo il mio tempo libero? Cosa c’entra con la mia depressione? Si ha ragione, sono terribilmente aggressiva. Non mi ero resa conto prima d’ora di quanto fossi arrabbiata. Cosa c’è che non va con Lei? Ecco io, non saprei, cioè, forse si ma mi vergogno. Mi vergogno troppo e mi giudico malissimo per provare questi sentimenti di invidia nei suoi confronti. Non so bene cosa Le invidio… non credo che guadagni più di me… investo parecchio denaro dall’estetista e, con rispetto parlando, io e Lei non sembriamo coetanee.

Eppure, eppure io sento che Lei ha qualcosa che io non ho….. non so se sia vero, ma Lei sembra essere contenta. Cioè se un cliente mi trattasse come io sto trattando Lei, ecco, mi sentirei persa. Invece Lei sembra mantenere una certa tranquillità. Non ha paura che gli altri possano pensare male di Lei, che la giudichino una pressapochista? Cosa ha che vedere questo con me? Bingo, dottoressa. Bel colpo. Sono competitiva con Lei? Si è così, ha ragione, non ne posso fare a meno. Se vorrei qualcosa di diverso? Dio come lo vorrei, ma non ci riesco, non so come si fa. Io traduco qualsiasi cosa in una sfida, in una montagna da scalare. Non sono capace di farmi bastare niente. Mi sento sempre alla rincorsa di qualcosa. Tutti i riconoscimenti che ho spariscono come nebbia al sole. E’ come se dentro di me non avessero alcun peso. Invece i miei errori, i miei difetti, le mie manchevolezze. Quelle invece ne hanno di peso, eccome.

Dove ho imparato tutto questo? Mah non saprei… ecco… a dire il vero lo so ma ho paura a dirlo. Ha un fazzoletto? Grazie, la prossima volta le porto un pacchetto nuovo. Non molla eh? Vuole proprio portarmi dove io non voglio vero? No, no, la prego non rinunci questa volta. Va bene, smettiamola con questo gioco, prima o poi dovrò pur cominciare a guardare dentro la mia storia. Si fa questo dallo strizza, vero? Ricordo mia madre come una persona che si sentiva sempre inferiore perché non aveva studiato e aveva fatto la casalinga. Aveva cresciuto me e mio fratello mentre mio padre costruiva il suo piccolo impero provinciale. Quando osava dire qualcosa mio padre la zittiva dicendole che quando il buon dio aveva distribuito i cervelli Lei era nel cesso.

Dottoressa, se io non guadagno soldi mi sento male, malissimo. Mio padre ha sempre fatto pesare il fatto che lui ci faceva star bene economicamente e ha sempre dato i soldi a mia madre con il contagocce. Se non guadagno entro in una grande paura. Se per un momento immagino di dipendere da qualcuno sento che impazzisco. Mi sale un terrore incomprensibile. Mi vergogno tanto. Sa cosa diceva mia nonna? Anche se le scarpe non si adattano ai nostri piedi, dobbiamo portarle comunque. Rido. Sa perché? Perché sia io che mia madre abbiamo l’ossessione per le scarpe… ah, non avrei mai pensato di scoprire oggi il perché della mia ossessione per scarpe che non metto mai.

Sono compulsiva, ne compro almeno un paio alla settimana. Si, è così. Le sue parole mi risuonano terribilmente: la mia professione è l’unica cosa sulla quale posso contare per avere la sensazione di valere qualcosa in questo mondo. Che ironia della sorte: mi sento intrappolata proprio in quella cosa che credevo mi avrebbe reso libera. La prego, dottoressa, mi aiuti a scendere da questa giostra infernale, perché la verità è che sono sfinita.

Mi sento in ostaggio di me stessa. E’ come se sapessi che sull’altra sponda del fiume c’è quello che desidero, ma anziché trovare le forze per attraversarlo, passo il tempo a dire che le acque sono fredde, che la corrente è forte e così via.

Bella questa immagine che mi propone.

La psicoterapia come corso di canoa.

Ci sto cara la mia psi, e quando avremo finito… le regalerò una pagaia.