Guarire la disperazione per uscire dalla violenza e dall'autolesionismo - Divenire Magazine

Guarire la disperazione per uscire dalla violenza e dall’autolesionismo.

Reading Time: 4 minutes

“ Non era questa la vita che volevo. Mai avrei pensato di trovarmi in una situazione del genere: io ho sognato di diventare una madre e di avere dei figli. Volevo una famiglia e non stare con i miei figli a giorni alterni “, urla disperata Michela, “ ora che lui se ne è andato, ora che ci siamo separati, io non avrò mai più indietro tutto ciò che avevo desiderato, lo capisce?”

La disperazione è uno dei dolori psichici più terribili, intensi ed insopportabili che un essere umano può sperimentare.

Ci sentiamo sotterrati vivi o chiusi dentro una gabbia od oppressi da un macigno enorme che non ci permette alcun movimento. Proviamo un senso di condanna eterna per una colpa che riteniamo gravissima: non siamo stati capaci di impedire ciò che è accaduto.

“grazie a queste sedute, mi sono resa conto di quanto fossi poco presente nel rapporto con mio marito. Di quanto io abbia sottovalutato tutti i segnali che mi ha dato. Ma fino a quando non mi ha detto in quella terribile sera che mi avrebbe lasciata io non l’ho mai preso sul serio. Ho sempre pensato che diceva tanto per dire ma che lui non sarebbe stato capace di lasciarmi. L’ho odiato, mi sono sentita una vittima. Ma ora mi rendo conto che io non mi prendevo cura per prima del nostro rapporto. A me bastava essere diventata mamma e di farlo a tempo pieno grazie al fatto che lui lavorava. Sto capendo troppo tardi i miei errori e non posso proprio perdonarmi”, continua il suo sfogo Michela.

Mentre le passo la scatola dei fazzoletti, Michela si sporge dal divano e nello sforzo di allungarsi per prendere la scatola mentre continua a piangere, le maniche di Michela si accorciano mostrandomi dei tagli sulle braccia. Michela si accorge che le noto e si affretta a nasconderli. Allora decido di avvicinarmi e di sedermi accanto sul divano. Michela si zittisce. Il suo sguardo è a metà tra lo spaventato e il vergognoso.

Con delicatezza afferro la mano di Michela mentre la guardo negli occhi. Sento che mi dà il permesso di sollevare nuovamente la manica. Insieme osserviamo il suo braccio livido e pieno di cicatrici.

“ non sono gli unici”, dice Lei sussurrando.

Michela mi mostra i tagli su tutti gli arti e poi commenta: “ è ciò che merito per essere stata così incapace di impedire il fallimento del mio matrimonio e poi perchè”, esplodendo in singhiozzi, “ perché sono una madre cattiva” dice in un pianto disperato e raggomitolandosi sul mio ventre.

Quando accadono situazioni di tale intensità e disperazione ho imparato a tranquillizzare le persone raccontando loro una storia o un aneddoto. Proprio come si farebbe con un bambino, inizio, per il tramite delle parole sussurrate con calma, come a contrastare la realtà concitata del momento, a creare con un tessuto narrativo una sorta di contenitore dove iniziare a depositare i frantumi in cui si sente il paziente.

“Michela, mentre tu sfoghi tutto il tuo dolore e la tua disperazione voglio raccontarti una storia. Ti va?”

Michela annuisce mantenendo la sua testa attaccata al mio ventre. Vi stupirà, forse, questo tipo di contatto corporeo tra me e la mia paziente, ma nel mio approccio è assolutamente consentito fornire, se funzionali alla terapia ovviamente, dei contatti di sostegno e di nutrimento. In questo caso, permettere a Michela di regredire ad uno stato infantile significa accogliere la sua fragilità ed utilizzare il codice corporeo, proprio quello che più funziona con i bambini, per cominciare a ritrovare uno spazio di calma e rassicurazione che permettano di aprire uno spazio di elaborazione del vissuto del momento.

“ Un giorno un bambino chiese al grande saggio: perché esiste la disperazione? A cosa serve? Perché Madre Natura permette tutto questo? Ed il grande saggio rispose: figliolo, la Natura non lascia nulla al caso. Essa ha creato la disperazione per aiutare l’uomo. Ed in che modo lo aiuta? Chiese il bambino. La disperazione serve a tagliare un legame d’amore che non è più possibile mantenere, rispose il saggio. Essa obbliga le persone ad attuare un taglio. O me o te, recita la disperazione. Se non sai uscire dal legame con una persona che non c’è più, se continuerai a nutrirlo e a tenerlo in vita senza rispettare che esso è in realtà morto continuerai a soffrire queste pene.”

Mentre racconto la storia, Michela si stacca e recupera una posizione verticale con la schiena. Cerca un fazzoletto e si asciuga gli occhi. La storia sembra interessarla ed io continuo.

“E come si fa? Chiese il Bambino. Prendi il sogno della persona disperata e brucialo sul fuoco. Poi usa le sue ceneri per concimare l’orto”

“ E come si fa a bruciare un sogno?”, interrompe Michela

“credo che il saggio voglia spiegare al bambino che occorre elaborare il lutto di quel progetto per fare spazio dentro di sé per costruirne un altro”, rispondo io

“ e come si fa?”, chiede Michela

“ Occorre osservare i modi con cui lottiamo per mantenere vivo il progetto. Ad esempio ripensando continuamente al passato e ai momenti belli oppure rimuginando continuamente su ciò che sarebbe potuto essere”

“ ma come si fa, per me è impossibile non rimuginare”

“ non è qualcosa di immediato, certo, ed è l’oggetto principale di questa terapia”, rispondo io, “ma un primo passo nella direzione indicata dal saggio lo stai già facendo”

“davvero?”, dice lei stupita

“ si, non stai trattenendo la tua disperazione, oggi ti sei permessa di entrarci dentro e di esprimerla”

“ mia nonna diceva che piangere non serve a niente!”

“Beh, io non la penso come tua nonna anzi. Più tratteniamo le nostre emozioni, specie quelle più dolorose come questa, più blocchiamo la funzione fisiologica di guarigione e rischiamo di paralizzarci e di anestetizzarci”, commento.

“ in effetti, è nei momenti più dolorosi che mi taglio, così, almeno, riesco a sfogare la mia rabbia e mi sento autorizzata a piangere perché il male delle ferite è un male vero”

“mentre il male dell’anima no?”

“mia nonna diceva che si può piangere solo se è davvero necessario perché ci si è fatti male”

“direi che con questa nonna dobbiamo farci due chiacchere!”, commento io , intendendo non la nonna reale ma quella interiorizzata da piccola, “non è mai troppo tardi per liberarci dai pesi che teniamo sul cuore”

“mia madre la subiva e mio padre idem. Nessuno osava dirle qualcosa. Lei era la padrona di casa…”

“Ora sei un’adulta e non dipendi più da lei per avere una casa e per sentirti al sicuro”.

“nemmeno dal mio ex-marito”, dice Michela

“E’ la prima volta che ti riferisci a lui come ad un Ex!”.