Intestino, intolleranze alimentari e "relazioni hamburger"- Divenire Magazine

Intestino, intolleranze alimentari e “relazioni hamburger”.

Reading Time: 4 minutes
Noi siamo quello che mangiamo.
Feuerbach

ll nostro intestino è considerato come un secondo cervello, viscerale ed emotivo, è infatti circondato da uno strato di neuroni che derivano da una specie di estensione del sistema nervoso, chiamata Divisione Enterica.

Alcune sostanze che vanno ad agire sui nostri neuroni, come le emozioni, avranno quindi un effetto sia sui neuroni del nostro cervello che su quelli che circondano l’intestino. Di conseguenza tutto il nostro mondo emotivo può ripercuotersi sulla funzionalità intestinale. Per questo motivo quando siamo agitati, ad esempio, sentiamo “le farfalle in pancia”.

Inoltre l’intestino, non solo viene influenzato dalle nostre emozioni, ma contribuisce a generarle, producendo circa il 90% della serotonina – che è il neurotrasmettitore che aiuta a regolare l’umore – presente nel nostro organismo.

La funzione dell’intestino è di assorbire le sostanze digerite che entreranno poi nel sistema circolatorio. L’intestino è quindi il luogo della SCELTA, tra ciò che può entrare davvero dentro di noi, trasportato dal flusso sanguigno e ciò che invece verrà espulso e quindi restituito al mondo.

È il luogo in cui si deve saper scegliere tra ciò che è buono per noi e ciò che è cattivo. Da queste scelte dipenderà il rifornimento al nostro corpo di sostanze nutritive necessarie a sostenere le nostre attività vitali. Nell’intestino, insomma, si gioca la partita tra essere nutriti o intossicati.

Per evitare un sovraccarico intestinale dovremmo essere capaci di fare delle scelte adeguate, iniziando dalla scelta di cibi nutrienti, buoni, evitando quelli cattivi o tossici.

Simbolicamente questo vale anche sul piano psicologico: quanto siamo in grado di capire e di scegliere tra ciò che ci fa bene e ciò che ci fa male? Sappiamo scegliere le persone giuste, il giusto compromesso, sappiamo allontanarci da ciò che ci avvelena?

Bisogna considerare che non esiste un cibo buono o cattivo in assoluto, dipende sempre da ciò di cui abbiamo bisogno in un dato momento. Il nostro organismo cercherà di prendere ciò che può, anche da cibi poco nutrienti, per la nostra sopravvivenza. Ci sarà, d’altronde, una piccola parte che verrà espulsa, anche dei cibi più buoni, magari perché ne abbiamo già abbastanza.

Questo vale anche da un punto di vista relazionale, non esistono persone o situazioni assolutamente buone o cattive. Si tratta sempre di capire se sono sufficientemente buone per noi in un dato momento.

Il punto di partenza è quindi quello di comprendere ciò di cui abbiamo davvero bisogno e che è giusto per noi. Per farlo bisogna però sapersi ascoltare. Il nostro cervello viscerale, l’intestino, è geneticamente istruito a scegliere, noi dobbiamo imparare con l’esperienza.
Provo a fare degli esempi. Ho affermato che non esiste un cibo buono in assoluto; Allo stesso modo, sul piano psicologico, non possiamo credere che esistano comportamenti o parole di per sè assolutamente buone o giuste, bisogna sempre considerare il contesto. Non basta pensare di fare o dare qualcosa di buono all’altro per credere di fare il suo bene. Bisogna infatti valutare l’effettivo bisogno e le necessità dell’altra persona. Ad esempio, dare ad una persona denutrita un pasto di sei portate, per quanto buone, risulterebbe eccessivo e la persona rischierebbe di morire per tutta quell’abbondanza.

Vi faccio anche l’esempio di quella che io chiamo relazione hamburger. L’hamburger, e in genere il cibo fast food, è considerato un cibo malsano perché ha un basso valore nutrizionale, ma è ricchissimo di grassi e di zuccheri. Questo cibo non ci fa bene e il nostro intestino assorbe quel che può di buono, ma ad un costo molto elevato. Infatti, i cibi così saturi di grassi portano ad una serie di accumuli degli stessi, che sono dannosi per la nostra salute. Inoltre questo tipo di cibo, così grasso e ricco di zuccheri, crea dipendenza.

Questo è ciò che accade anche in alcuni tipi di relazioni disfunzionali, relazioni che non ci fanno bene, ma verso le quali instauriamo un certo tipo di dipendenza e dalle quali sembra tanto difficile distaccarci, magari perché sono le uniche che conosciamo e facciamo fatica a credere di poter ricevere qualcosa di meglio.

Tra i rischi della dipendenza da un certo tipo di cibo ci sono le intolleranze alimentari.

Le intolleranze alimentari sono una reazione lenta, subdola e progressiva dell’intestino che non tollera l’ingestione massiccia di certi cibi, come ad esempio il grano, i latticini, le uova, ecc. A differenza delle allergie, le intolleranze si manifestano gradualmente e non in modo violento, e sono sempre associate alla quantità dell’alimento che viene ingerita. Le intolleranze nascono dal consumo eccessivo di cibi che piacciono a tal punto da non poterne fare a meno, e verso i quali si è sviluppata una vera e propria dipendenza psicofisica. Perciò in tali casi, come primo rimedio è opportuno evitare di mangiare gli stessi cibi tutti i giorni e fare attenzione a quelli che piacciono troppo.

Nelle intolleranze è rintracciabile, quindi, una forte ambivalenza: da un parte vogliamo un certo cibo e ne consumiamo dosi massicce, dall’altra il nostro organismo ci dice di non sopportarlo più, come se questa coscienza fisiologica cercasse di farci capire di smetterla perché questa dipendenza non ci fa bene.

Proviamo a spostare l’attenzione sul piano psicologico e chiediamoci: quante volte ci sentiamo intolleranti verso alcune persone o situazioni? Ci sono contesti in cui, spesso, la nostra soglia di sopportazione è bassa, il ché può accadere quando l’esposizione a quella particolare situazione si è ripetuta nel tempo così tanto da averci reso, non più forti, ma più sensibili o insofferenti (ne abbiamo mangiato troppo!).

Per questo è importante capire qual è l’elemento che proprio non tolleriamo in un dato contesto e comprendere in quale veste si è ripetuto così tante volte nella nostra vita da renderci insofferenti .

A proposito di ambivalenza, spesso ciò che non sopportiamo fa parte di ciò che cerchiamo (come la relazione hamburger). Così, ci possiamo arrabbiare o diventare intolleranti non solo verso l’altro – che si presenta come un “cibo cattivo” o che non è emotivamente disponibile come vorremmo – , ma verso il nostro stesso bisogno di dipendere da qualcuno, soprattutto se crediamo che il nostro bisogno non troverà accoglimento.

Per comprendere pienamente il significato di una intolleranza, bisognerebbe anche riflettere sul valore simbolico che riveste il particolare cibo non tollerato, contestualizzandolo nella storia individuale di ciascuna persona.

2 pensieri riguardo “Intestino, intolleranze alimentari e “relazioni hamburger”.

  1. Grazie. Sento come molto vero quanto scrivi. A casa faccio del mio meglio per nutrirmi in modo vario e di qualità (anche bio e cibo locale). Fuori casa non sempre riesco a nutrirmi bene (… anche nelle relazioni). I pasti piu belli che ricordo sono quelli piu informali,in cui tra amici e persone che si vogliono bene ognuno condivide il suo cibo (semplice o elaborato che sia) insieme a se stesso.

  2. Grazie Davide per il tuo contributo. In effetti il cibo si presta ad essere investito di molti significati simbolici, che riguardano il nostro mondo interiore e relazionale.

I commenti sono chiusi.