Fuga nella maternità - Divenire Magazine

Fuga nella maternità.

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Ma come è possibile separarsi dalla dipendenza materna
Quando il viso della mamma esprime angoscia, solitudine, mancanza di senso,
e quella terribile debolezza?
Come superare la paura di darle il colpo di grazia?

 

Marina Valcarenghi, Mamma non farmi male
Quando la ricerca di una gravidanza può essere un modo per scappare da se stesse.

“nella mia vita non sono riuscita a fare niente di quello che volevo. E adesso che avevo deciso di fare qualcosa per me, tutta per me, in cui mi sarei realizzata, non riesco a rimanere incinta! “.

Irene è una donna di 37 anni che sta valutando se fare un percorso di psicoterapia dietro suggerimento del suo ginecologo. Da un paio d’anni sta cercando una gravidanza e prima di intraprendere una via medicalmente assistita vuole valutare se qualche blocco psicologico glielo sta impedendo.

“Irene, mi arriva tutta la sua frustrazione e anche la sua rabbia per una vita che si ostinerebbe a non rispondere alle sue richieste. Mi faccia capire meglio cosa intende quando afferma che non è riuscita a fare niente di ciò che voleva”, commento io.

“A casa non giravano molti soldi, perché mia madre faceva la casalinga e mio padre l’impiegato in comune, così io e le mie sorelle siamo state spinte a fare ragioneria. Io avrei voluto fare un liceo, l’artistico per precisione. Ma la mamma diceva che ci stavano i drogati e che non avrei potuto campare d’arte, così ho rinunciato alla mia passione, che era disegnare, e sono andata a fare ragioneria. Una volta conclusa, senza infamia né lode, avrei voluto andare all’università. Ma poi mi hanno chiamata in banca e li sono rimasta, o meglio, mi sono sotterrata. Adesso che non ne posso più di questo lavoro vorrei fare qualche gravidanza, giusto per prendermi qualche anno di stacco da questo ambiente”, racconta Irene con una sottile vena ironica.

“Irene, se avesse potuto fare il Liceo Artistico oggi chi sarebbe?”

“Sarei un arte-terapeuta!”, dice Irene quasi trionfante

“Ha mai pensato di iscriversi ad una scuola di Arteterapia in questi anni?”

“Mi sono informata qualche anno fa, ma poi ho lasciato perdere”

“Perché?”, Le chiedo

“Troppo sbatti”, dice ridendo “avrei dovuto impegnare uno o due weekend al mese, per cosa poi? Tanto si sa che è difficile trovare lavoro”. Il sarcasmo di Irene mi irrita, forse perché provo sempre un certo dispiacere quando vedo le persone non fare nemmeno lo sforzo di credere nei propri talenti o di impegnarsi a svilupparli.

“da quello che dice, non sembrerebbe esserle costata troppo questa rinuncia”, incalzo un poco per capire se Irene desideri ancora esprimersi in questa direzione.

“Mi sarebbe costato di più rinunciare alle uscite con il mio ragazzo, i miei amici”, risponde Irene mantenendo il tono ironico.

“e a parte il fidanzato, gli amici ed il lavoro, come investiva il resto del suo tempo libero?”

“due volte in palestra e pulizie della casa, non sembra ma anche tenere bene una casa è impegnativo.”

Questa ironia di fondo ha il potere di irritarmi sempre di più. Faccio la fantasia che ci sia una donna seduta accanto ad Irene che fa dei commenti alle domande che faccio. Immagino che sia disprezzante nei miei confronti. Sono indecisa se rivelare ad Irene queste mie sensazioni. Una battuta di Irene mi toglie dall’empasse:

“tutto bene, dottoressa? Mi guarda in modo strano”

“può essere che il mio sguardo rifletta un certo imbarazzo che si è andato amplificando man mano parlavamo”, rispondo io

“ha, ha, mi sa che delle due, chi ha più bisogno dello psicologo è lei!”, dice Irene trionfante.

“sembra particolarmente soddisfatta di quello che dice”, commento ascoltando un’emozione di tristezza, “come se la mia supposta vulnerabilità la rassicurasse in qualche modo”.

Irene si fa seria: “sono stanca di essere messa sotto giudizio da voi medici. Mi sembrate tutte persone realizzate e felici, che sanno cosa è giusto e cosa no. Io ho voglia di avere un figlio e mi ritrovo dalla psicologa come se fossi una matta. Non c’è nulla che non va in me, è inutile cercare”, dice Irene con tono aggressivo.

“Mi dispiace Irene che si senta messa sotto pressione dalle mie domande. Sto cercando di farmi un quadro della sua situazione a partire proprio da qualcosa che ha messo in campo lei per prima. Si ricorda all’inizio del colloquio? Mi ha detto che non è riuscita a fare nulla di ciò che voleva. Per questo motivo ho sentito che fosse importante indagare questo aspetto della sua vita. Ma se non lo desidera mi posso fermare. E’ vero che questo colloquio glielo ha prescritto il medico ma se sente che non è una strada utile può decidere in maniera adulta di non proseguire”, commento un po’ seccata. Non mi aspettavo, in effetti di essere aggredita in quel modo.

C’è una lunga pausa di silenzio.

Io ne approfitto per ascoltare cosa sta accadendo dentro di me. Prima l’irritazione, poi le fantasie sulla donna che commenta sullo sfondo il nostro dialogo, poi la seccatura ed ora il dispiacere. Si, provo dispiacere perché è come se mi sentissi giocata, irretita da qualcosa. Mi arriva un’immagine: Irene mi spinge via mentre sto per avvicinarmi: “Irene, sento la necessità di condividere con Lei quello che sto notando. Forse potrebbe essere utile per entrambe fare il punto della situazione. Le va?”

“Si mi va, anche se non saprei cosa dirle”, risponde Irene con tono dispiaciuto.

“siamo a metà del nostro colloquio. Com’è andato finora?” le chiedo cautamente.

Sul viso di Irene si stampa un’espressione di disgusto: “sono ancora quella di prima!”, riprendendo il suo tono ironico.

“Io, invece, non mi sento quella di prima. Intendo di prima che entrasse qui nel mio studio. In questa mezzora sono passata attraverso una serie di emozioni. Sono partita dall’irritazione, passata dalla noia e poi approdata di nuovo all’irritazione ed in ultima analisi al dispiacere. Mentre provavo queste emozioni ho avuto diverse immagini e fantasie”

“non pensavo di crearle così tanto casino!”, commenta Irene sarcastica

“mi dica Irene, lei è abituata a non sentirsi importante per gli altri vero?”, decido di affondare

Irene mi guarda con gli occhi sbarrati. Si sente colpita come a tradimento e nel contempo sorpresa per questa affermazione. Gli occhi si inumidiscono: “come fa a dire una cosa del genere?”
“Sulla base di ciò che ho vissuto insieme a lei in questa mezzora di colloquio. Ho capito che ciò che mi irritava era il modo sistematico con cui svalutava non solo se stessa ma anche me. Non lo faceva in maniera esplicita ma attraverso il suo tono di voce per lo più. Sa, nel nostro lavoro, noi psicoterapeuti analizziamo molto i nostri vissuti in relazione al paziente perché sono fonti di moltissime informazioni, spesso le più importanti.”

“E cosa avrebbe capito, sentiamo”, continua Irene imperterrita sulla sua strada di provocazione.

“ ho capito che ha una paura fottuta che qualcuno la prenda sul serio davvero e ho ipotizzato che si sia costruita un’armatura caratteriale per difendersi da questo desiderio e dal dolore che ne consegue. La mia mente è arrivata dopo, prima è arrivato il mio corpo, poi le sensazioni, le emozioni e in ultima analisi la mia mente”.

“In effetti mi stupisce di essere stata in grado di muoverle così tante cose”, dice commuovendosi, “io di solito passo inosservata”, dice asciugandosi una lacrima.

“in effetti, se io fossi un bambino che desidera avvicinarsi a lei, oggi avrei fatto molta fatica: a parole mi diceva vieni, ma nei fatti mi spingeva via”, commento incontrandola in un profondo contatto oculare.

Irene si rilassa sul divano. Mentre continua a mantenere un contatto oculare con me si mette comoda, sistemando il cuscino dietro la testa.

“continui a parlarmi di me, la prego, mi piace vedermi attraverso i suoi occhi… che sono così belli!”