non lo sopporto - Divenire Magazine

Specchio vuoto. Uomini fantasma.

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Assentarvi è un modo per esimervi da tutto ciò
Che porterà significato,
Scopo e appagamento nella vostra vita.
Gary Zukav

Angelo se ne stava contrito con lo specchio in mano.

Il gruppo aveva fatto un lavoro incredibile: per la prima volta quest’uomo di ventisette anni restava in silenzio, in contatto con tutto il suo senso di vergogna e inadeguatezza.

Le parole, o per meglio dire, i labirinti di parole, erano il suo pane: giovane avvocato rampante, era conteso dai migliori studi della città.

Quella sera aveva esordito nel gruppo dicendo che si trovava in un grosso guaio: la sua amante aveva deciso di trasferirsi a casa sua.

Chiamare Federica un’amante è un eufemismo, perché Federica era una delle tante. Gli unici ad essere informati della perenne condizione di confusione affettiva di Angelo, erano, oltre me, gli uomini del gruppo.

Federica non sapeva di essere una delle tre: Angelo le aveva fatto credere, come a Marina e a Claudia, di essere l’unica. Ed ora, forse stanca degli incontri intensi, ma a singhiozzo, Federica comunicava ad Angelo la sua intenzione di lasciare Brescia e trasferirsi da lui.

Il punto era che Angelo non si trovava in questo guaio perché era un don Giovanni, ma perché Angelo non sapeva dire di no. Così quando una donna si faceva avanti, magari raccontandogli qualche triste e drammatica storia, Angelo non poteva fare a meno di dare alla donna quello di cui aveva bisogno.

Dedicarsi a donne bisognose di attenzione e affetto era la sua attività di volontariato: “ho visto mia madre soffrire tantissimo per l’abbandono di mio padre. Ed io avrei voluto che qualche uomo si prendesse cura di Lei per non essere l’unico che si facesse carico di rallegrarle un po’ la giornata”.

Una volta rimasta sola, quando Angelo aveva appena tre anni di età, la mamma si era trasferita a vivere a casa dei suoi genitori. Con loro viveva anche la sorella, una zia a cui Angelo era molto affezionato. Angelo era cresciuto solo, in un contesto di donne sole e ansiose. Il nonno, un uomo molto impegnato nella vita pubblica del quartiere, era un tiranno a casa: pretendeva di essere servito e riverito in virtù del fatto che manteneva tutte le donne della casa e Angelo, ovviamente.

Che Angelo dovesse essere un avvocato o qualcuno di importante era già scritto.

Doveva essere avvocato per far felice il nonno, che finalmente accedeva di buon diritto al circolo “bene” del quartiere fatto di medici, avvocati e imprenditori. Doveva essere avvocato per riscattare la madre, che aveva speso la vita intera facendo un lavoro di poca soddisfazione in un’assicurazione, doveva essere avvocato per dare uno schiaffo morale al padre, che si era saputo spendere la vita in Spagna, passando da un fallimento all’altro, doveva essere avvocato per far felice la zia, che ancora era zitella e non era uscita di casa.

“Io sto bene quando gli altri stanno bene”, ripeteva spesso nel gruppo. Era come se Angelo se ne andasse in giro con una maglietta con su scritto: “io sono la soluzione ai tuoi problemi!”.
Ed in effetti Angelo, era per tutti un angelo del signore anche di fatto: dai modi estremamente gentili ed eleganti, era colui che apriva la porta alle vecchie signore facendo loro un complimento, che si faceva in quattro quando qualcuno, incontrandolo per i corridoi del tribunale, chiedeva un’informazione.

Prendeva a cuore tutte le cause e da me era arrivato per guarire dal suo eccessivo perfezionismo:” lavoro venti ore al giorno. Studio e lavoro alle mie cause senza tregua. Sono sempre disponibile per i miei clienti. A volte in modo eccessivo, perché ho diversi debitori. Io, dottoressa, sento di non avere un limite. Non so mettere mai un limite, perché non ce la faccio proprio a dire di no, a deludere le persone nelle loro aspettative. Sia chiaro, non è che non me ne accorgo, ma vedere che sono felici e stanno bene, è la mia droga”.

Il problema delle donne, se così lo vogliamo chiamare, era emerso successivamente, quasi per caso.

Un giorno Angelo era arrivato in seduta in preda ad un fortissimo attacco d’ansia: “dottoressa, piuttosto che decidere con chi stare, preferirei ammazzarmi”.

Con questo atteggiamento di estrema e patologica disponibilità, Angelo aveva iniziato delle relazioni con alcune donne. Un po’ come un marinaio, ne aveva una con ogni studio legale o tribunale o albergo che frequentasse. Con la scusa di essere molto impegnato nel lavoro, le donne si accontentavano di brevi notti insieme o di qualche week end. Il vero nutrimento arrivava loro dalle bellissime lettere d’amore che Angelo scriveva, dai messaggini appassionati, inviati quotidianamente.

L’aspetto ancora più inquietante e drammatico della vicenda, era che Angelo se le portava a letto per soddisfare il loro desiderio sessuale: molto raramente, infatti, aveva un’eiaculazione. Era capace di avere lunghissime erezioni senza mai arrivare al proprio piacere. “Mi piace vederle godere, vedere che sono l’uomo che le fa felici”.

Tutta questa pseudo generosità mi dava il voltastomaco. I ricorrenti tentativi, in seduta, di sviare l’attenzione da se stesso, per rivolgerla verso di me, mi irritavano moltissimo. “ Dottoressa, come sta oggi? La vedo affaticata!”. La mia aggressività verso di lui era stata spesso oggetto di indagine. Difficilmente, però, eravamo riusciti ad andare più in là di qualche scusa: “ oh, sono davvero dispiaciuto di irritarla. Mi sento terribilmente in colpa per provocarle queste sensazioni. Ma, mi creda, non lo faccio apposta”.

Avevo proposto il cerchio degli uomini per sostenere Angelo in un cammino di riconsiderazione, per non dire revisione, della sua identità maschile, e nel tempo anche con il gruppo le cose non sembravano evolvere un granché: in effetti la sua gentilezza compulsiva aveva nauseato anche i membri del gruppo.

Le parole di Angelo ripetevano in continuazione le infinite giustificazioni per non ferire questa o quell’altra. A nulla valevano le confrontazioni da parte dei membri del gruppo, anche molto dure a volte, sul fatto che Angelo evitava in tutti i modi di affrontare quell’angoscia che si sarebbe sollevata non appena avesse anche solo lontanamente osato guardarsi dentro ed esprimere un abbozzo di desiderio, un tanto sospirato “Io vorrei…”

Ora, però, la vita gli stringeva i panni addosso, e lo costringeva a rispondere delle sue cosiddette menzogne-a fin-di-bene, come le chiamava lui.

Voleva vivere con questa donna? Ne preferiva una? Amava il suo lavoro? Sarebbe uscito a bere una birra dopo il gruppo o sarebbe tornato a casa a bere la tisana che aveva promesso alla fidanzata bergamasca?

Avremmo avuto tutti bisogno, durante quell’incontro del cerchio degli uomini, che Angelo si sciogliesse in un pianto disperato, che perdesse il suo controllo.

E invece, Angelo se ne stava lì. O per meglio dire, lì c’era il suo corpo, l’involucro di Angelo. Ma lui, lui non c’era.

Il suo sguardo era solo in apparenza interessato a quello che gli altri dicevano. C’era chi si incazzava e diceva che era impossibile che non sapesse cosa volesse veramente, c’era chi lo difendeva e diceva che in fondo, con modalità diverse, anche lui scappava pur di non deludere qualcuno. Quel che era certo, era che tutti sentivamo l’odore insopportabile dell’impotenza.

Non riuscivamo a raggiungerlo, a toccarlo, a graffiargli un po’ l’anima.

Fu nel momento in cui diventai consapevole dell’atmosfera di sconforto che aleggiava nel gruppo, che mi ritornò in mente un passaggio del libro di Simone Perotti, “Dove Sono gli uomini”, sul tema del NON LUOGO DEI MASCHI che qui vi ripropongo:

“Gli uomini di questa generazione sono in un non luogo, privi di collocazione e di dimensione, alienati tra lavoro che cambia, vita familiare esplosa, relazioni remote, socialità insoddisfacente. Vengono spinti in questa no man’s land dallo straripare vitalistico, energetico ed esistenziale delle donne, che invece coprono tutto il campo, vivono con passione ed entusiasmo, malgrado i problemi, anche enormi, ancora discriminate e oggetto di violenza, ma certamente dotate di un coraggio e di una forza che mai, forse, avevano avuto prima.

Questo concetto del Non Luogo mi continuava a ronzare nella testa. Un po’ come l’isola che non c’è di Peter Pan.

Approfittai di un momento di silenzio e dissi al gruppo:

“Ecco, Angelo, io credo che grazie al lavoro del gruppo, siamo approdati nel luogo dove abita una parte di te molto nascosta e per la quale provi molta vergogna. Proprio tu, che temi tanto la delusione, stai facendo, insieme a tutti noi, l’esperienza di non arrivare da nessuna parte. Questo, paradossalmente, è una conquista per te e per il gruppo! Cosa ne dite di aiutare Angelo ad esplorare questa parte di sé a partire proprio dai vostri vissuti e dalle vostre esperienze?”

L’energia del gruppo cambiò repentinamente. Come quando c’è un abbassamento dell’energia elettrica e le luci si fanno più deboli.

Tutti spostarono lo sguardo verso terra, quasi all’unisono. Qualcuno si stravaccò sui cuscini e qualcun altro sospirò.

E’ sempre un momento importante quando il gruppo esce da una dinamica relazionale “problema-soluzione”.

In fondo, la soluzione al problema di Angelo era ovvia ma ciò nonostante si sentiva che qualcosa in profondità lo rendeva paralizzato, inabile a rispondere.

Nel ruolo di leader della storia del gruppo, Marcello ricordava come era stato utile in passato fare l’esercizio dello specchio. “Che ne dite se ci prendiamo un momento per interiorizzare quello che sta avvenendo e lo facciamo prendendo ognuno uno specchio in mano?”, aggiunse Lauro, che ricopriva il ruolo di custode dell’Efficacia. “Ognuno si guardi nello specchio per qualche secondo, in silenzio, e si chieda in quali situazioni si è sentito così”.

I sospiri si fecero più ricorrenti ed il silenzio, dopo la battaglia di parole, arrivava nel gruppo a dare una tregua di gentilezza.

Anch’io potei finalmente rilassarmi e sentire la tensione scendere lungo il corpo, dal collo ai piedi.

Ebbi la sensazione come di deporre le armi, di uscire dal braccio di ferro dell’uno contro tutti.

Pensai che Angelo avesse più di una ragione per sentirsi uno contro tutti. Mi ritornavano in mente frammenti di ricordi in cui mi ero sentita anch’io così. Contrariamente ad Angelo, però, io ho sempre espresso un’ostilità esplicita: da piccola ero capace di stare in silenzio per giorni. Ma no, forse, anch’io ero stata compiacente come Angelo: nei miei moti di orgoglio finivo per sì, stare zitta, ma anche fare tutto da me. Non chiedevo più nulla a nessuno. Mi arrangiavo in tutto. Queste esperienze mi avevano convinta di non essere importante per la mia famiglia anche se sotto sotto speravo che il mio essere eccessivamente brava e autonoma li aiutasse ad accorgersi che io c’ero ed ero qualcosa di buono.

Forse per Angelo era ancora peggio. Aveva talmente rinunciato, si era talmente rassegnato all’idea di non essere importante, di non essere minimamente considerabile se non per soddisfare i desideri altrui, che aveva disattivato la funzione del desiderio come scelta estrema di sopravvivenza.

“Se non sento, non soffro”, sembrava essere la decisione inconsapevole.

In quel momento mi salirono le lacrime. Un moto di empatia mi faceva sentire connessa al suo vissuto profondo.

Sollevai gli occhi ed incontrai quelli di Angelo: mi cercavano come a dirmi: “mi sento perso e pieno di vergogna per non essere capace di fare questo esercizio”.

Per un attimo temetti che le mie lacrime potessero sollevargli un senso di colpa, di responsabilità verso il mio sentire.

Al contempo mi resi conto che quand’anche Angelo potesse sentirsi in colpa per il suo senso di inadeguatezza, dall’altro la presenza del gruppo, di un gruppo fatto di soli uomini, costellava qualcosa di nuovo nel campo di esperienza di Angelo.

Il gruppo svolgeva la funzione paterna di creare una distanza tra me e lui e di rendere questa distanza sopportabile.

A poco a poco tutti i membri del gruppo si resero conto di cosa stesse succedendo tra me ed Angelo. Gli sguardi empatici di tutti su Angelo sembravano rendere quel momento eterno.

Un vuoto di tempo, di parole, di significati, di spiegazioni. Una sospensione che non si traduceva nella fretta di addivenire, di decidere, di dire, di spiegare, di pensare.

Un vuoto attraversabile, un vuoto sostenibile che lasciava emergere un abbozzo di qualcosa.

“ti guardo Angelo”, disse Ernesto rompendo il silenzio, “ ti guardo e ti vedo. Ti guardo e mi vedo.”

Come un mantra, Francesco, Giovanni, Paolo e poi tutti gli altri, ripeterono ad Angelo la stessa frase: “ti guardo e ti vedo. Ti guardo e mi vedo”.

Ora Angelo era visibilmente commosso e poi piano piano si fecero sempre più udibili i singhiozzi che cercava di trattenere.

Eravamo tutti commossi da quell’evento: l’utero del gruppo aveva le contrazioni e spingeva con determinazione e amorevolezza il bimbo Angelo verso la luce.

Luciano, un uomo di qualche anno poco più grande, che in un precedente gruppo in acqua, aveva sperimentato la gioia di lasciarsi andare tra le braccia di un uomo e lasciarsi cullare, strisciò vicino ad Angelo. “vorrei stare qui, più vicino a te. Posso?”.

In men che non si dica, tutto il gruppo, si raccolse intorno ad Angelo. C’era chi gli accarezzava un piede, c’era chi gli stringeva affettuosamente un braccio, chi gli accarezzava i capelli.

Quando piano piano l’esperienza si concluse e tutti tornarono ai loro posti, Marcello commentò: “Angelo, nella storia del gruppo è la prima volta che ti vedo così in contatto con te stesso. Sento che il tuo sguardo è cambiato e questo mi fa sentire più a mio agio. Credo che tu sia riuscito a metterti profondamente in gioco in questo gruppo e ad entrare in te e nel tuo sentire pieno di terrore e confusione. Credo che tutti noi conosciamo questo stato e tutti noi lo rifuggiamo nascondendoci nei dover-essere e nelle nostre maschere. Dopo tanti Cerchi fatti insieme, sento finalmente che sei approdato qui. Ti dò ufficialmente il benvenuto!”.

Dopo una risata collettiva, e qualche battuta scherzosa (quanto amo questa ritualità tra maschi! La mettono in atto ogni volta che superano qualcosa di difficile. A me sembra un modo pseudo tribale per riconoscersi), Angelo, senza nemmeno essere sollecitato dal custode della procedura, prese l’inaspettata iniziativa di impegnarsi nel compito di guardarsi allo specchio quotidianamente e di chiedersi “cosa voglio?”.

Tutti concordarono sul fatto che si fosse dato un ottimo esercizio. Ora lo specchio aveva finalmente un’immagine da riflettere.