Ho un tumore - Divenire Magazine

4) Ho un tumore. Ma non sono malata.

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Titolo originale: Regina dei dolori

Ero arrivato tardi.

Mi ero fermato a mangiare un gelato.

Tu mi aspettavi giù in strada, già perché la visita era stata veloce.

Che è tutto dire.

Sei salita in macchina e hai detto così, semplicemente: “Ho un tumore”.

E neanche piangevi, mentre a me è partita in testa quella canzone “i migliori anni della nostra vita”, come una minaccia, che fossero finiti.

Poi sembrava di dover fare tutto di corsa, le analisi, il ricovero, imploravamo di far presto con mille telefonate.

Ci mancava la terra sotto i piedi, ci aggrappavamo a quello che c’era da fare. Come volessimo pensare che la salvezza fosse tutta lì, in un semplice solco veloce, sul tuo corpo, da tagliare.
E pensare che ero io, negli anni, ad aver sempre avuto paura di morire.

In quei primi giorni impazzivi dall’ansia, sembrava una conquista entrare in ospedale, così quando accadde ci siamo sentiti al sicuro.

Poi quel medico mi ha preso in disparte: “Vedrà che con l’ano artificiale si abituerà presto, quanti anni ha sua moglie? E poi per la vagina, vedremo. Forse dovremo tagliare anche lì, di solito è così. Comunque anche senza si possono fare tanti altri giochetti … sessuali.”

Lo diceva come fosse mio complice, sorrideva ammiccando, mentre io inorridivo, più per come lo aveva detto che per quello che sentivo.

Giochetti? Sessuali?

A te non lo dicevo, certo, ma io ci morivo, anche se a dire il vero fino in fondo non gli credevo.

No, io non gli credevo.

Era tutto pronto quando siamo scappati, e pensare che ci avevano rassicurati, è bravo, ci sa fare… Sì, solo a tagliare!

Siamo stati avvertiti, all’ultimo momento. Siamo andati da un altro: “Ma signori questi tumori non si operano più da anni!”

E’ così che abbiamo cominciato a capire dove bisognava andare. Dove lavorano i migliori.

Sono i soli anni della nostra vita.

Forse da lì hai cominciato a cambiare.

“Non sono mica malata, io ho un tumore”.

Ti sei fatta tagliare i capelli corti corti da un grande parrucchiere: “E’ caro, ma ne ho diritto no?”

Pensavi che se fossero caduti avrebbe fatto meno effetto.

E sei diventata ancora più bella, tutti lo dicevano, e me lo raccontavi la sera sorpresa: “Sai gli uomini si girano a guardarmi, per strada, a cinquant’anni”.

Facevi il bagno nell’acqua calda fra bolle e vapori, muovevi l’acqua piano, con le mani ti coccolavi e ti lisciavi la pelle.

Io ti guardavo dal buco della serratura, non sentivo bene, ma vedevo che ci parlavi, cauta e amichevole, al tuo tumore:  “Lo so che non mi fai del male, siamo amici, adesso mi curo, sei venuto per farmi capire che mi devo prendere cura di me, che mi devo amare”.

Sì da lì hai cominciato a cambiare.

Dicevi che ti era venuto un male così per insegnarti a essere regina.

Tutti venivano a vedere e a onorare la tua bellezza che combatteva, che s’accasciava e risorgeva, che barcollava e poi s’addormentava.

Poi in fretta: “Presto il catino, vomito” ed era sempre solo saliva.

Conati da chemio, quel nulla trasparente che ti stroncava e forse ti guariva.

Ti tenevo la mano sulla fronte, stavamo vicini, avvinghiati, stretti come in una danza, e così un poco passava, forse anche la paura. Ti accarezzavo come sempre, come se non fosse niente.

Pensavo al plurale: “noi abbiamo un tumore”.

Ma piangevo da solo.

Fra le mie braccia tu tornavi bambina e io diventavo finalmente genitore.

Quante coke compravo! Avevamo un sacco da fare contro la nausea e lo sfinimento, era un protocollo d’amore che onorava ogni gesto e liberava tutto il nostro valore.

Doveva essere tutto come volevi, eri esigente, sicura, certa di quello che facevi, ogni cosa al suo posto, ogni gesto al tuo modo.

La mattina anche in ospedale ti truccavi sempre, ti curavi: “Vieni, alzami, voglio muovermi, per favore” e partivi a testa alta verso la piazzetta della sala d’attesa, con quel tuo bel vestito leggero da passeggio: “Io non le voglio le vestaglie da ospedale.”

“Io non sono mica malata, io ho un tumore.”

Ti tiravi dietro quel trespolo di metallo scrostato, con le bottiglie appese e i tubi che ti entravano dentro, facevi una curva e quel coso deviava, cigolava, sembrava se ne andasse per conto suo.

Tu lo prendevi per il collo e lo guidavi, sicura.

Finché camminavi.

Non entrava neanche nel bagno quell’assurda ferraglia, stava fuori e tu dentro con la porta socchiusa, a fare pipì o vomitare.

E ci veniva da ridere, solo ogni tanto, senza esagerare.

Tutta fiera te lo sei anche fatto cambiare. “Visto adesso, come so farmi rispettare? Ho solo aspettato che cambiasse di turno l’infermiera, quella bionda, la megera.”

A me sembrava che tutti gli altri nel corridoio si scostassero al tuo passare, come sorpresi, guardavano con quei loro occhi cerchiati e stanchi la tua sicurezza, il tuo orgoglio, come fossi troppo bella per stare lì, assieme a loro, a soffrire.

“Io non sono mica malata, io ho un tumore”.

Contavi le gocce delle flebo, calcolando il tempo che ci avrebbe messo ad esaurirsi quella strana clessidra ad acqua.

Te la regolavi da sola, non ti fidavi, misuravi quanti giorni ancora dovevano passare, perché, tu non ci volevi restare un minuto più del necessario in quel posto.

Quando andavi a fare i raggi in quei desolati labirinti sotterranei ti muovevi sempre sicura e veloce mentre io ti trotterellavo dietro reggendo le tue carte con cura, ero un paggetto ubbidiente che segue la sua padrona.

Poi, alla fine, c’è stato, solo, da aspettare.

E sono stati ancora altri anni in cui tu ci parlavi.

Non saprò mai fino in fondo cosa gli dicevi.

Poi, pian piano, dovevamo riprendere a far l’amore, a sciogliere quei tessuti inariditi e tumefatti dai raggi.

“Fai piano amore.”

“Fai forte amore!”

Non sapevamo come ci riuscivamo, con tutto quel dolore.

Era difficile riaprire la strada, nel sangue, col mio sesso.

Non so come ce la facevo, ancora ad entrare.

Dopo l’amore piangevi sempre, di gioia e di abbandono, esausta, provata.

“Ma quando lo farò senza tensione?”

Dopo ti chiedevo se ti avevo fatto male, ma tu rispondevi sempre: “No, non fa tanto male, va quasi bene.”

Quasi… bene, amore.

Ti asciugavi il sangue, furtiva, perché io non sapessi, là sotto, cosa succedeva.

Eri delicata come una bambina, ma spessa e ruvida come una guerriera.

Una veterana di guerra ferita e indurita nel corpo e nel cuore, ma viva e fiera della sua scritta sul petto: Reparto d’Assalto Dignità.

E i capelli non erano nemmeno caduti.

E quello ti voleva tagliare.

Poi una volta, alla fine, diciamo così, l’hanno detto, d’improvviso, erano sicuri: “Signora lei è guarita, nessun dubbio, è finita.”

Non ce l’abbiamo fatta ad aspettare di uscire.

Ci siamo abbracciati proprio lì, nel reparto dell’Istituto Tumori, proprio lì dove lavorano i migliori. Piangevamo a dirotto, con i singhiozzi, senza ritegno.

Eravamo felici là in piedi, in mezzo al corridoio.

La gente dalla sala d’attesa, ci sbirciava con pudore, per non farsi notare.

Ma io li vedevo che non sapevano e cercavano di capire.

Chi di noi due stava per morire.


La riflessione dell’autore: Con vivere

Quanto sono grandi le sofferenze per noi che non possiamo evitare di sentire e vedere.
Arrivano e non te l’aspetti mai, se sei felice.
Una quantità di male, che qualcuno si deve pur prendere, sconvolge il mondo, crea lutti e paura, a volte ci passa accanto, altre ci colpisce in pieno.
Dovremmo prepararci da ragazzi ed essere pronti quando arriva, per imparare più presto possibile a serrare le fila e saper amare di più.
Si diventa grandi così: imparando una nuova lingua plurale. “Abbiamo un tumore.”
Una lingua che non guarisce nessuna malattia, ma lenisce, incoraggia, sostiene, fa compagnia, e fa sperare, insieme. Una lingua plurale. Per il tempo che abbiamo.
La malattia, per differenza, come la morte, insegna quanto è bella la vita.
E’ il suo possibile dono.
Per questo non possiamo essere infelici, sprecare il tempo, lasciarci degradare. Ogni attimo è vita.
Tanto non sappiamo mai chi sta per morire.

Estratto dal libro “Canti di grazia e di conversione” di Giorgio Piccinino, ILMIOLIBRO, 2013.