È la nostra luce, non la nostra ombra,
ciò che ci spaventa di più.
Nelson Mandela
Uomini in ostaggio
Angelo, Ernesto ed Ennio hanno una cosa in comune e non lo sanno.
È l’inconscio del cerchio che lo sa, perché ogni volta che portano qualcosa di loro, vengono trattati con estrema tenerezza e gentilezza.
Di tenerezza e gentilezza, i tre ne sanno davvero molto poco perché hanno avuto delle “madri-vittima” che li hanno sottoposti ad una sorta di incantesimo che non permette loro di essere sé stessi e di sentire il piacere di vivere.
Tutto è pesante, tutto è difficile, tutto sembra non avere senso in alcuni momenti.
L’ombra della madre è un po’ che circola nel cerchio, e sta piano piano diventando un ingombro a cui non è più possibile sottrarsi.
Non è più possibile per Angelo, che dopo essersi preso l’impegno di guardarsi allo specchio tutti i santi giorni chiedendosi cosa volesse realmente, apre il cerchio dicendo di aver scoperto di sentirsi come un bambino di sabbia e chiede commosso un abbraccio da parte di tutti.
Non è più possibile per Ernesto, che senza perdersi nel suo solito fiume di ragionamenti labirintici, dice che non può fare a meno di boicottarsi ed è tornato nella spirale dei numerosi malesseri fisici che distruggono tutto ciò che fino a quel momento ha fatto per stare meglio con sé e la sua famiglia: “ Abbiamo iniziato ad ascoltarci io e mia moglie. Andavo in giro con lei e addirittura si rideva. Mi sono aperto a lei di tanto così e lei mi ha restituito tantissimo. Poi c’è qualcosa che scatta. Quando qualcosa va troppo bene, io inizio di nuovo ad aver paura di uscire. Comincio a stare male. A mettere mia moglie alla prova. Divento richiedente, voglio tutto, che mi faccia le punture, che mi sopporti in cambio di un uomo che sta sdraiato tutto il tempo sul divano disposto a parlarle di quanto si sente vittima di tutta la sfiga del mondo”.
Non è più possibile per Ennio, che si rende conto di boicottare anch’esso tutti i movimenti di avvicinamento della moglie pensandola continuamente come l’origine di tutti i suoi mali.
Il nero delle loro madri è qualcosa che si fa sempre più evidente, perché i tre hanno ora il coraggio, grazie al sostegno empatico del gruppo, di esprimere tutta la loro disperazione, il loro sentirsi impotenti difronte al crollo inesorabile dei loro “Sé di rappresentanza” con cui celavano tutta la loro identità precaria.
Le madri nere sono come delle nuvole di inchiostro che avvolgono tutto. Con la loro visione triste, drammatica e paranoica della vita, hanno impedito ai loro figli di scorgere i colori dell’esistenza.
“ mi sento come un pittore che ha un unico colore scuro sulla tavolozza”, dice Ernesto, “ per quanto mi sforzi, non potrò che dipingere la mia realtà con lo stesso tono di tristezza e negatività”.
Da queste donne, questi uomini hanno appreso che una catastrofe condivisa può sembrare più accettabile. Hanno imparato una forma subdola e manipolatoria di risarcimento: “ se non posso essere felice io, non lo sarai nemmeno tu!”.
Questa tipologia di madre rassegnate a fallire la propria vita, sembra essersi innestata nei gangli più profondi dell’essere di questi uomini che sembrano vittime di un incantesimo.
Il vissuto di colpa verso queste donne da parte di questi figli per non averle amate a sufficienza, tanto da restituire loro una vita migliore, hackerizza costantemente l’idea che questi uomini hanno di sé rendendoli fragilissimi, di sabbia appunto.
Con la scusa di abituare al dolore e di allenare i loro figli alle delusioni e alle difficoltà, le madri-vittima hanno attaccato nel profondo ogni slancio vitale, ogni speranza di avere una vita migliore nei loro figli.
In questo modo essi sono destinati a dover convivere con un sentimento di fallimento per tutta la vita.
Sono madri che , essendo inconsapevolmente molto arrabbiate con il maschile, si vendicano con la stirpe degli uomini attaccando, come un sistema immunitario impazzito, la propria prole. Esse si tengono simbolicamente vicini questi uomini destinandoli alla stessa medesima esistenza perdente.
In altre parole, come scrive la Valcarenghi, queste madri anziché darli alla luce, li hanno dati al buio del loro inferno interiore.
Questi uomini avvertono dentro loro stessi e poi agiscono nelle loro relazioni, sia affettive che lavorative, un disfattismo continuo e sfiancante: “ come si fa a trovare qualcosa di bello in questa merda di vita?”.
Il guardiano messo al controllo di questo sofisticato incantesimo, che si autoperpetua nonostante il passare degli anni e che sembra rendere vano qualsiasi tentativo di proporre percorsi riparativi di quell’amore malsano in cui sono cresciuti, si chiama Paura.
“ io ho bisogno che mi racconti tutti dall’inizio, Ernesto”, interviene Lauro, “ voglio cercare di afferrare chi sei, di capire nel mio profondo, come è possibile che tutta questa sofferenza che ci porti stasera, possa continuare a rigenerarsi come un disco rotto che si interrompe sempre allo stesso punto. Io vorrei godere della sinfonia che sei!”. Antonio si avvicina ad Ernesto e posandogli le mani sulla schiena, aggiunge “ voglio essere te stasera, voglio provare a dare voce a quello che sento che non hai il coraggio di dire. Per interrompere questo gioco perverso. Allora dico questo. Io, Ernesto, non mi capisco proprio. Sono in crisi e stasera vi porto la mia inquietudine e la mia tristezza”.
Ernesto, scoppia in lacrime: “ È emozionante che tu faccia questa cosa per me, che ti occupi di me”.
“ Cosa te ne fai di questo che sta succedendo tra te e Antonio?”, chiede Pietro, “ sì, sento che mi fa sentire più parte del gruppo. Mi sento meno estraneo, meno lontano di come mi sentivo quando sono entrato”, risponde Ernesto.
“ ti va se continuiamo il gioco di parlare al tuo posto, che ha iniziato Antonio?”, incalza Lauro. Ernesto annuisce. Lauro continua: “ Io sono Ernesto e ho tanta paura di me, di quello che potrei scoprire. Ho paura di scoprire che sono incazzato e che potrei arrivare a mettere la mani addosso a qualcuno. Ho paura di scoprire che mia moglie non mi piaccia più, che nonostante veda che è affettuosa nei mie confronti, io voglia starmene un po’ per fatti miei, ho paura di crescere, di decidere. Ho paura di essere onesto con gli altri e di dover fare tutta la fatica di rifare la mia vita da capo”.
Lauro si ferma. Guarda Ernesto, perché teme di essere andato oltre e per stemperare aggiunge: “ ho detto troppe cazzate insieme?”. Ernesto è come impietrito, non riesce a commentare. Arriva in suo soccorso Angelo: “ Mi sono sentito vicino a te quando hai detto che non senti il diritto di essere felice. Abbiamo come un’abitudine a cercare qualcosa che debba andare sempre storto. Sappiamo sentire solo lo spiacevole delle cose.”
Le madri-vittima ignorano chi sono davvero i loro figli. Non sanno nulla di loro. Sanno ciò che fa comodo loro pensare. Così l’esperienza di non valere nulla è continua e viene rinnovata come una vaccinazione ogni volta che il figlio le guarda o le incontra o ci scambia una parola.
Il senso di impotenza e di rabbia si annodano continuamente e possono essere all’origine di tanti sintomi a livello corporeo, come crampi intestinali, blocchi alla schiena, bruxismo, masturbazione compulsiva, ipocondria.
E’ certamente riparativo per persone come Ernesto ricevere attenzione e curiosità da parte del gruppo che pur essendo formato interamente da uomini, svolge comunque un’importante funzione materna riparativa.
“ quando dovevo decidere se venire qui al gruppo stasera, mi sentivo completamente nel panico. Odio sentirmi così insicuro e odio nascondermi dietro tutti i miei sintomi per non avere il coraggio di dire che mi vergogno e soprattutto sono angosciatissimo all’idea che anche voi non ne possiate più di me” riprende Ernesto.
“ a dire il vero”, interviene Luciano, “io sento che per la prima volta ti stai avvicinando. Io sento un interesse genuino per te, mi arriva la tua tristezza e il tuo sconforto. Ti sento credibile. E’ un bellissimo momento questo per me, perché sento di risuonare con te”.
“ora basta, però”, irrompe con rabbia Ennio, “ ne ho piene le scatole di questa brodaglia da femmine in calore!”.
Il gruppo è attonito. C’è un eterno sospeso. C’è uno stato di shock: Elio, che se ne sta sempre sullo sfondo, che difficilmente prende la parola e tendenzialmente non è mai diretto, è scoppiato in lacrime e si è completamente richiuso su se stesso. Tiene la faccia tra le mani e quando Giorgio gli si avvicina mettendogli una mano sul ginocchio in segno di empatia, gli scosta la mano con un gesto brusco.
Dietro la sollecitazione degli sguardi degli altri membri del gruppo, intervengo dicendo: “ Ennio, c’è qualcosa che possiamo fare per te?”.
Queste parole producono un aumento del pianto. Ennio piange disperato. Un pianto a cui sembra arrendersi però. Questa resa cambia l’energia della stanza. Tutti percepiamo che è un bene che ciò avvenga e nonostante sentiamo tanto dispiacere per Ennio, sentiamo un senso di sollievo.
Questa volta Ennio accetta la vicinanza di Giorgio e calmandosi inizia a chiedere scusa e a dire che si vergogna molto. Il gruppo resta in silenzio. Questa compostezza, questo rispetto dei processi altrui mi commuove molto. Amo la qualità di presenza che sanno esprimere gli uomini in questi frangenti. Essa sembra dire: “ coraggio, amico mio, qualsiasi cosa succeda io sono qui e ci starò di fronte insieme a te”.
Ennio si calma e lentamente alza la testa e cerca il mio sguardo. Poi annuisce per consentire ad andare avanti.
“Ho la sensazione che tu abbia toccto qualcosa di molto doloroso, Ennio”, esordisco, “ vuoi condividere qualcosa con noi di questa esperienza?”.
“ Non so bene dire cosa”, dice Ennio, “ non so dire cosa mi è preso. Ho sentito una grande rabbia e basta. Poi mi sono tanto vergognato per quello che ho detto ed il modo con cui sono sbottato. Ora mi sento meglio, ma non so dire perché”.
“ pensi che c’entri qualcosa”, riprendo io, “ col fatto che ci siamo concentrati su Ernesto e poco su di te?”.
Ennio impallidisce e scoppia nuovamente in un pianto interrotto: “ mi vergogno, mi vergogno tanto. Alla mia età fare queste figure da bambino lagnoso “. “ io non sento che sei un bambino lagnoso”, interviene Luciano, “ anzi festeggio il fatto che finalmente hai perso un po’ del tuo solito controllo e che ti sei lasciato andare. Ero preoccupato anch’io che ti stessimo trascurando, ma non sapevo come fare a riportare l’attenzione su di te. Quindi ti prego, prenditi un tuo spazio e raccontaci tutto dall’inizio, come ha suggerito prima Lauro ad Ernesto”.
“ si, credo che la questione dell’attenzione sia centrale. Mia madre con le sue malattie, mio padre sempre al lavoro, mi hanno trascurato per tutta l’infanzia. Ero io la donnina di casa che pensava a cucinare per tutti. Addirittura mi venivano a chiamare a scuola quando mia madre non si sentiva bene. Ho perso tutta la prima media per stare appresso alla mamma. I nonni mi dicevano sempre di fare il bravo, che la mamma non doveva prendersi gli spaventi e doveva riposare, che se combinavo qualcosa lei avrebbe potuto morire di crepa cuore. Così non potevo uscire per andare a giocare con i miei amici, io non ho mai potuto sentire la libertà di fare quello che volevo. Ricordo, però che mi sembrava che andasse bene così, anzi vivevo nel terrore di fare qualcosa di sbagliato e nella paura che se fosse successo qualcosa a mia madre la colpa sarebbe stata la mia. Poi sono cresciuto, ho incontrato mia moglie, abbiamo messo su la famiglia e io pensavo che fosse tutto a posto. Negli ultimi anni ho cominciato ad ossessionarmi: lei si era iscritta ad un corso di informatica e spesso usciva con i suoi compagni. La vedevo nascondersi a scrivere messaggi col cellulare. Sono impazzito di gelosia. Siamo entrati in crisi ed ora viviamo da separati in casa. Nel frattempo sono entrato in terapia ed ora sono in un punto del percorso in cui mi sono accorto di avere saltato tante tappe della mia vita, che sono sempre stato lo sguattero di qualcuno e che io non so nemmeno chi sono né cosa voglio. So solo che mi sento non all’altezza di tante cose, che vi vedo più avanti di me, che faccio fatica anche a seguirvi, a capirvi”. Ennio si interrompe. Abbassa nuovamente gli occhi a terra. “ ti prego, continua, a me interessa!”, esclama Virgilio, che aveva seguito tutto il processo con una presenza vibrante, “credo che tutti noi qui, a turno, ci siamo sentiti non all’altezza e a tratti ridicoli, o sbaglio?”.
Gli uomini del cerchio annuiscono. “ È una sensazione che conosco bene”, commenta Ernesto, “so cosa vuol dire sentirsi un bambino lasciato lì da qualche parte come un ingombro inutile”. “
“ già”, si inserisce Lauro, “il famoso sacco di merda!”. Tutti esplodono in una risata liberatoria.
“Geniale!”, penso dentro di me.
Il tempo del gruppo sta per terminare. Invito tutti ad alzarsi e ad immaginare di avere accanto, ognuno il proprio sacco di merda e… di improvvisare una battaglia!
“Beh”, commenta Ennio, esausto per la battaglia, “sono un uomo dotato di un’arma letame!”.
Tutti scoppiano nuovamente a ridere. Si danno delle grandi manate sulla schiena mentre si accomiatano.