Paura di vivere - Divenire Magazine

Paura di vivere.

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Aiutami perché non sento niente, non mi sento viva.

Mi capita spesso di incontrare pazienti che mi fanno questa richiesta, che di solito portano uno stato di grande apatia, obnubilamento, confusione e paura.

La prima cosa che mi viene da fare è rassicurarli rispetto al fatto che sono vivi e che i processi scorrono dentro il loro corpo anche se fanno fatica a sentirli perché nel tempo, per motivi ben precisi, si sono anestetizzati per difendersi dalla troppa paura di non riuscire a sopravvivere.

Quando qualcuno o qualcosa sta minacciando fortemente la nostra incolumità o quando ci arriva rifiuto, in una fase in cui siamo ancora fortemente dipendenti (dalla vita intrauterina a quella dei primissimi mesi di vita) da chi si prende cura di noi, la paura è così grande da diventare terrore, si sente il vero e proprio rischio di poter morire.

I confini non sono ancora chiari e strutturati perciò gli stimoli pericolosi arrivano dritti al centro, senza o con pochi filtri di protezione e spesso l’unica possibilità di difesa è quella di non sentire, di congelarsi per non andare in pezzi e di impedirsi la percezione delle emozioni perché troppo dolorose.

Così si perde la possibilità di ‘sentire nel corpo’ e questo equivale a perdere la bussola interiore che permette di prendere le direzioni migliori, per questo ci sentiamo inevitabilmente smarriti.

Il senso di vuoto può essere disarmante, si cammina in una terra desolata dove non si sa quale sia la direzione, in una foresta dalla quale non si riesce ad uscire, è buio e la luce fa fatica a filtrare.

Siamo di fronte alla paura di vivere, alla fatica di riconoscere la propria esistenza.

Trattandosi di esperienze traumatiche evolutive molto precoci, non è detto che si abbiano ricordi o consapevolezze, ma spesso è molto chiara la sensazione fisica, quella che percepiamo nel corpo e nelle emozioni e che rimandano a un vissuto di cui non si ha memoria e questo spaventa ancora di più.

Non abbiamo altra scelta che ascoltare il corpo, affidarci alla sua memoria, a quello che è rimasto intriso nelle sue fibre, a quello che ci racconta per risalire all’esperienza traumatica e poterla riparare.

Attivare il contatto con la terra e con i punti di appoggio, trovare così il proprio grounding, ampliare il respiro, permettono di sentire la propria corporeità. Questo è un salvavita, si sperimenta immediatamente nel corpo di esserci, di essere nel qui ed ora e di essere vivi. Da qui si può partire per costruire la possibilità di stare nelle proprie fatiche e di sostenere il proprio diritto all’esistenza, prima con se stessi e poi con il mondo.

La rassicurazione è volta a calmare la paura e il panico che deriva da questo sentirsi “disconessi”.

Sembra paradossale ma è cosi: non è scontato che ci riconosciamo il diritto di esistere per il solo fatto di essere al mondo e ancora meno scontato è che chi ci ha messo al mondo e ci ha donato l’esistenza, sostenga e protegga questo nostro diritto.

Il diritto di esistere è il primo, è quello che possiamo sintetizzare con le parole “Io esisto” e tutti gli altri fondamentali diritti, che abbiamo bisogno vengano riconosciuti durante la nostra esistenza, arrivano comunque dopo. Parlo del diritto di avere bisogno, di essere sostenuto, di essere autonomo, di essere libero, di amare e amare sessualmente…

Ecco perché le persone, il cui diritto di esistere è stato oltraggiato, fanno fatica a riconoscersi i diritti “successivi”, esse sono alle prese con la propria sopravvivenza, con la continua necessità di tenersi emotivamente vive.

Quando il diritto all’esistenza è stato negato o minacciato, si sente più che paura, oserei dire terrore, si fa forte il senso di annichilimento, il corpo si ritira, sente freddo perché l’energia è tutta concentrata a tenersi insieme, a proteggersi per non andare in pezzi. L’energia vitale non può fluire liberamente ed espandersi nel corpo, il respiro è sottile e poco profondo. Rannicchiarsi e chiudersi diventano le uniche possibilità di sopravvivere.

Allora rinforzare il contatto con il proprio corpo, muoverlo progressivamente, approfondire la respirazione diventano interventi fondamentali per sentire la propria esistenza e poter stare con la paura senza spaccarsi. A volte, il contatto del terapeuta è necessario per permettere che l’altro faccia questo sforzo. Sì, si stratta proprio di uno sforzo, perché nel momento del dolore e della paura, il desiderio sarebbe quello di scappare, di sparire mentre restare, poter contattare la rabbia e mostrarsi all’altro, rendersi visibili, esporsi, sono movimenti che richiedono molto coraggio.

Letizia e altri miei pazienti spesso portano in seduta questi vissuti e io desidero raccontare di come, un giorno, mentre Letizia stava vivendo intensamente il dolore della fatica di esistere, le ho chiesto di muoversi e di rivitalizzare il corpo, prima sulla poltrona e poi nello spazio. Le ho semplicemente chiesto di camminare e di fermarsi, di tanto in tanto, in un punto della stanza per dire ad alta voce “Io esisto, io ci sono”, immaginando di dirlo a qualcuno di importante per lei.  La fatica e la paura erano così grandi che la voce non poteva uscire, la gola era strozzata, avrebbe solo potuto restare muta o urlare.

“Urla allora”, le ho detto.

Così ha fatto, con paura ma, allo stesso tempo, con liberazione e sorpresa, la voce è uscita forte e insieme sono emersi odio e terrore, il suo corpo ha iniziato a muoversi e a sentire qualcosa di potente, non era più anestetizzata.

“Bene! Ora, prova a camminare in questa stanza, respira, senti che sei al sicuro, senti che sei in contatto con te, poi fermati di nuovo e prova a ripetere “Io esisto” guardando la persona che ti fa più paura”.

“Davanti c’è mio papà, ho paura che mi distrugga”, dice piangendo, con la voce tremante.

“Ok, come è per te se io ti do un sostegno dietro la schiena appoggiando la mia mano?”, lei si sente più sicura ma ancora non è possibile affrontarlo.

Le sto accanto, con la mia mano sinistra appoggiata sulla schiena a darle rassicurazione e allungo l’altra verso l’avanti tenendo a distanza questa figura così minacciosa e le dico “Ora, mentre io con la mia mano ti proteggo da questa minaccia, puoi riprovare?”.

I respiri si fanno intensi, il corpo trema ma poi finalmente ecco uscire le parole “io esisto e tu non puoi più distruggermi”. Invito Letizia a ripetere più volte questa frase, la protezione della mia mano ha reso possibile affrontare una minaccia per la quale si sentiva totalmente indifesa. Mentre questa possibilità di autoaffermazione si faceva più solida dentro di lei, io ho lentamente abbassato la mia mano perché le sue risorse diventavano sempre più accessibili e vive, fino al momento in cui lei stessa ha potuto portare le sue mani avanti, sostituendo la mia, e ha detto, con forza e commozione “Io esisto e tu non mi distruggerai più!”.

Questa volta Letizia si sta difendendo da sola senza scappare via.

I suoi occhi brillano di gioia e di commozione per esserci riuscita, mi guarda, mi dice “Mi sento rinata, grazie di cuore!” e poi cerca il mio abbraccio.

Sostenere e accogliere con calore l’esistenza dell’altro, permettere questo passaggio doloroso e al contempo meraviglioso, quello di venire alla luce, di rinascere, mi restituisce sempre una grande emozione, il mio cuore si riempie di vita e di gioia, esulto per questa vittoria che consente a Letizia di iniziare finalmente a riconoscersi il diritto di esistere.

Il corpo di chi ho di fronte riprende vita e dopo le lacrime arrivano il sorriso, la meraviglia e la gratitudine di essere al mondo.

Ora è bello sentire.