Perché gli uomini uccidono le donne che amano - Divenire Magazine

Perché gli uomini uccidono le donne che amano?

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E’ certo che ci troviamo di fronte a delle costanti che circoscrivono e determinano il fenomeno. Sempre più spesso, quasi immancabilmente, la causa scatenante l’omicidio è un abbandono o una separazione, una messa in crisi del rapporto, un’affermazione di autonomia e di libertà delle vittime.

E dunque, quel che muove al crimine è l’incapacità di questi uomini di sopportare la frustrazione del rifiuto, di governare la rabbia e metabolizzare la perdita, addirittura, di vivere l’esperienza stessa del dolore.

Ma nessuno, o quasi, si è ancora azzardato ad affermare che ci troviamo davanti a un’inedita questione maschile, tutta da decifrare e comprendere.

Vero, le violenze sulle donne ci sono sempre state, delitto passionale e delitto d’onore sino a poche decine di anni fa erano all’ordine del giorno, e proprio per garantire al genere maschile se non impunità assoluta, almeno attenuanti e clemenza, erano una volta reati verso i quali il Codice penale prevedeva indulgenza e comprensione.

Ma oggi, più che l’affermazione di una forza e di dominio, più che frutto di un’idea delle donne come esseri inferiori, più che retaggio di incultura e degrado, questa violenza pare nascere dalla disperata opposizione a un cambiamento femminile, dall’incapacità di accettarlo e comprenderlo; dal panico provocato dalla nuova libertà e autonomia delle donne. Dunque, una violenza che colpisce non chi si ritiene inferiore e subalterna, ma al contrario una donna che sceglie, che decide, che pone problemi e crea conflitti. E che spaventa, perché quanto più cresce la capacità di affermazione femminile tanto più vengono denudate la fragilità o la dipendenza o l’inadeguatezza maschile.

Di fronte a un inarrestabile cambiamento, il gesto violento diviene l’estremo atto di un potere morente, la resa tirannica dinanzi all’impossibilità di sottomettere, lo sfregio di un altrimenti incancellabile alterità. La negazione e, insieme, la massima affermazione, della propria vulnerabilità e parzialità.

Così che oggi la violenza sulle donne appare il sintomo più drammaticamente eloquente del declino di un genere; l’unico mezzo a disposizione per quegli uomini che credono così di sventare il rischio della perdita.

Ma cosa c’entra la violenza di pochi con il resto degli uomini? Perché dovrebbe interrogare anche gli altri? E portarli a riconoscere che la violenza è parte di una storia comune? Che per quanti si abbandonano al gesto estremo di un crimine, tutti gli altri condividono una cultura delle relazioni e dell’amore dove ancora quel germe è annidato?

Adriano Sofri, in un lungo articolo intitolato Quando gli uomini uccidono le donne, pare essere tra i pochi ad aver compreso l’esistenza di una “questione maschile” che chiama in causa tutti. “ Gli uomini, anche quelli che si astengono con orrore dall’ammazzare e violentare e picchiare le donne”, scrive l’intellettuale pisano su “La Repubblica”, “ se non sono ipocriti con se stessi e sono disposti a frugare nella propria formazione, sentono di avere a che fare con l’impulso che spinge i loro simili a quell’orrore. Se ne tengono a distanza dandogli nomi di sicurezza come ‘raptus’ e follie. Sono tentato di dire che gli assassini di donne stanno al maschilismo come gli attentati contro gli ebrei stanno all’antisemitismo”.

Una voce isolata, messa immediatamente a tacere come quella di uno scomodo grillo parlante.

Meglio, molto meglio appassionarsi alla prossima vittima, entrare a far parte del set a cielo aperto del futuro delitto, e fingere di indignarsi, e scandalizzarsi, di temere l’orco e compiangere un’innocente che promette di rendere più interessanti le nostre serate televisive, così generose di dettagli intimi e di segreti inquietanti.

Perché tanto più riusciremo a credere che i mostri sono altrove, lontani ed estranei, tanto più possiamo stargli vicino, a un passo dai loro cuori di tenebra, a un soffio dal sangue, dalla paura e dal dolore, e continuare a illuderci che, comunque, siamo salvi.

Tratto da: Iaia Caputo, Il Silenzio degli Uomini, Feltrinelli Editore, Milano, 2012, pp.161-163