Non la posso vedere: senso di inferiorità e invidia - Divenire Magazine

Non la posso vedere: senso di inferiorità e invidia.

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Tutto posso perdonarti,
non però il fatto che ci sei e che sei ciò che sei,
anzi che “io non sono te

 

Cartesio

Nel suo Purgatorio, Dante descrive gli invidiosi come persone condannate ad avere gli occhi cuciti con del filo di ferro. Il “non vedere” sembrerebbe rimandare al fatto che l’invidia corrisponda all’incapacità di sopportare la visione della gloria dell’altro oppure che sia qualcosa di difficile da riconoscere perché essa è riluttante a svelare sé stessa.

Come si manifesta l’invidia? Quali sono le sue caratteristiche, le sue espressioni tipiche? Nella mia esperienza essa si cela sotto i più diversi travestimenti e di certo non si presta ad una visione immediata.

L’ invidia è un’emozione molto insidiosa e spesso rappresenta la parte in ombra dell’ammirazione e della gratitudine, come argomenta la celebre psicoanalista Melanie Klein, nella sua opera “Invidia e Gratitudine”.

Mostrare questa parte a qualcuno è molto difficile e di solito se anche solo proviamo a nominare la parola Invidia otteniamo degli insulti: “invidiosa io? Di te poi? Io non ti invidio anzi ti ammiro!”, oppure “invidiosa sarai tu!”.

Generalmente pensiamo, infatti, che siano gli altri ad essere invidiosi ma difficilmente siamo in grado di ammettere a noi stessi che lo siamo. E’ un po’ come se pensassimo che l’erba invidiosa crescesse solo nel giardino del vicino!

L’invidioso si sente tale perché è a contatto costantemente con dei sentimenti di carenza e di vuoto. Egli è impegnato a fare confronti tra sé e gli altri sentendo ogni volta che qualcosa in sé non va bene. La sensazione di irraggiungibilità del livello espresso dalla persona invidiata innesca molta frustrazione. In questo senso la persona esprime una forte dipendenza dall’altro perché senza il confronto non saprebbe dire chi è e cosa vuole.

“Io non mi sento mai abbastanza” è il disagio trasversale ad ogni racconto e ogni comunicazione.

L’ invidioso, infatti, parla continuamente un linguaggio di carenza: “Chissà se riuscirò mai a diventare brava come te” oppure “sono in ansia perché non mi sento all’altezza come te della situazione” e così via.

Inizialmente viene spontaneo consolare e rassicurare queste persone ma alla lunga le rassicurazioni lasciano il tempo che trovano perché esse assomigliano ad un vaso senza fondo per cui i nostri apprezzamenti non daranno mai il risultato sperato di far sentire all’altro un po’ di pienezza.

“Grazie, non so come avrei fatto senza di te” è una seduzione pericolosa che trattiene dentro un gioco invischiante la persona “piena”, da una parte, e quella “vuota” dall’altra.

Nel tempi questo circuito vizioso ingenera molta frustrazione e rabbia: il dare compulsivo dell’una crea un unico movimento a senso unico nella relazione che non fa altro che confermare la carenza dell’altra. Entrambi iniziano a provare rabbia e col tempo risentimento. Chiusi dentro questa gabbia, i “giocatori” percepiscono impotenza e si sentono intrappolati dentro un’escalation senza possibilità di tregua.

Giorno per giorno si creano distanze che nel tempo diventeranno insanabili perché ad un certo punto anche solo la presenza dell’una sarà sufficiente per far scattare nell’altra chiari segni di insofferenza:

  • Ti piace farmi sentire uno schifo vero?
  • Ma come, con tutto quello che ho fatto per te?
  • Non hai fatto altro che farmi sentire inadeguato ed ora che l’ho capito sai che c’è? Vai a quel paese!

L’invidioso ha ottenuto in questo modo di capovolgere la situazione: ora è l’altro a sentirsi carente, colui che non ha fatto abbastanza, che si sente in colpa e in debito!
Questa dinamica è molto ricorrente nelle situazioni di dipendenza affettiva ed è talmente distruttiva che può portare alla violenza nelle sue manifestazioni più gravi e drammatiche.  Molti omicidi e suicidi sono la risultante di una escalation di questo tipo ma anche altre forme più simboliche di morte, come un divorzio o un licenziamento, lo sono.

Che fare dunque per fermarsi in tempo?

Occorre essere sinceri con noi stessi e dare spazio all’ascolto dell’irritazione che sicuramente avremo sentito molte volte e avere il coraggio di guardare la paura che ci muove l’idea di dichiararlo all’altro aprendo un conflitto.

Il gioco del pieno e del vuoto è un gioco simbiotico che mantiene la coppia in una stato di fusione dove non c’è un io e un tu ma un precario “noi” in cui uno più uno fa uguale a nessuno!

Il conflitto se attraversato in maniera sana, magari con l’aiuto di un terzo che possa fare da intermediatore dentro questa follia, è il caso di dire “cieca!”, porterà i membri della coppia a nascere e a riconoscersi, intraprendendo in questo modo, una strada per uscire dallo sfruttamento reciproco e potersi incontrare in un “Io sono io” e “ tu sei tu”.

Solo a quel punto gli occhi potranno scucirsi e aprirsi alla bellezza commovente di una visione compassionevole della propria e altrui umanità