Aprire gli occhi

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La “comprensione del testo” prima e dopo un lavoro su di sé

Laura arriva in seduta trafelata e ansiosa. Le è arrivato un messaggio. Le ha scritto il suo ex fidanzato. Lei lo aveva bloccato, ma lui è riuscito a contattarla usando il telefono della sua azienda.

È preoccupata, teme che quel messaggio potrebbe sconvolgerla e non ne ha voglia, visto che finalmente sta meglio dopo un periodo difficile e un buon lavoro su di sé. Vuole leggere il messaggio in seduta con me, questa opzione la fa stare più tranquilla.

Sblocca il cellulare facendo grandi respiri. Apre la chat di whatsapp e faticosamente comincia a leggere. Legge con molta lentezza, respira con affanno, analizza ogni singola parola.

Il testo prende forma contemporaneamente nelle nostre menti e nelle nostre “pance”. E’ un testo delirante, intriso di narcisismo, un goffo tentativo di essere romantico che altro non si rivela che una esaltazione di sé e un velato insulto a lei, rea di averlo lasciato e abbandonato.

Ascolto e osservo, cerco di captare cosa sta avvenendo in Laura. Anche io ho un po’ paura. Sento il suo timore che quel messaggio possa perturbare la serenità degli ultimi incontri, minare i progressi. Lo temo anche io.

Poi mi ricordo con chiarezza del primo colloquio, i pianti, lo smarrimento. Vedo scorrere immagini fino a quelle dell’ultima seduta. Laura entusiasta dei progressi, decisa nel prendersi finalmente cura di sé, consapevole delle dinamiche familiari che la intrappolano.

Questa immagine e i passaggi evolutivi tra le sedute si fanno largo e dissipano la paura, guardo Laura con occhi fiduciosi mentre finisce di leggere il messaggio, respiro con più calma, mi avvicino alla sua poltrona, sento che anche lei è più rilassata. Sta fissando lo smartphone con aria dubbiosa e incuriosita.

Le chiedo serenamente cosa ne pensa, sono fiducioso della risposta che mi darà, perché adesso ha degli strumenti in più.

Alza lo sguardo, fa un respiro. “Ma questo è scemo! Pensa di riconquistarmi snocciolando i suoi successi lavorativi… fatti con me lontana ovviamente… e insultandomi perché me ne sono andata?”.

Ne scaturisce una rabbia sana, un rifiuto per un messaggio che altro non è che volerle cucire addosso una colpa e un ruolo che non le stanno più bene.

Laura vede chiaramente quel meccanismo tipico e ripetitivo della sua vita, in cui le persone vicine, a partire da sua madre, le scaricano addosso la loro fatica pretendendo che sia lei a occuparsene.

“Basta! Non ne voglio più sapere di queste cose!”

La preoccupazione, il timore, l’ansia si sciolgono in un sorriso. Ha lasciato andare. Numero di telefono bloccato o meno, la questione è chiusa definitivamente.

Eppure, c’è stato un tempo molto recente in cui quelle stesse parole, parole molto simili, l’hanno catturata, ammaliata e conquistata. Il suo ex convivente era un affascinante ed estroso artista. Per quell’uomo si era allontanata centinaia di chilometri dalla sua famiglia e dai suoi amici. Per lui si era sacrificata e limitata nell’espressione di sé stessa.

Questo è quello a cui serve un percorso di terapia. Non si può cambiare il mondo esterno. Non si può evitare che delle situazioni ci creino paura, rabbia, dolore. La terapia serve a fornirci i mezzi per reagire in maniera adulta e consapevole agli urti della vita, serve ad imparare a capire di cosa abbiamo bisogno e ad ascoltarci. A capire che siamo noi responsabili del nostro benessere, siamo noi a lasciarci ferire e toccare, non sono gli altri o un messaggio chi ci fa stare male.

Laura ha avuto bisogno di un ambiente protetto per sentirsi forte abbastanza e leggere il messaggio, col tempo potrà esportare questa esperienza ovunque vorrà andare.

Nei mesi precedenti ha imparato ad ascoltarsi maggiormente, si è permessa di dire qualche no, si è concessa di sentirsi una bella persona.

Sì, Laura aveva una radicata convinzione di non valere nulla, di non meritarsi nulla. Nella sua testa era fortissimo il messaggio genitoriale che fosse una cattiva bambina e, poi, crescendo, una brutta persona.

In un percorso fatto di nuovi permessi e benevolenza verso di sé, della rivalutazione di altre figure di riferimento positive, ha trovato il modo, in lacrime, di urlare ai muri dello studio (si comincia da lì) che è una bella persona e merita amore.

I complimenti e i gli strani svolazzi romantici velati da insulto dell’ex fidanzato non fanno più presa, non attaccano più. La paura di vederlo o di averci di nuovo a che fare non c’è più. Il percorso non è finito, ma un grande step in avanti è stato fatto.

La comunicazione è opaca, interpretabile e un po’ lo rimane sempre. Una buona terapia, però, fornisce ottimi strumenti di lettura, la consapevolezza che permette di non cascare più nelle voragini profonde che si celano soprattutto nei “non detti” di ogni conversazione.

È un po’ come fornire o migliorare le lenti a chi ha un difetto alla vista o fornire strategie alternative di apprendimento ad un dislessico.

Una volta imparato a muoversi, la vita appare meno spaventosa e più “aggredibile” (nel senso letterale di “ad gredire”, andare verso).

Un po’ come i versi di “Giudizi Universali” di Samuele Bersani “ho dei centimetri di libri sotto i piedi per tirare la maniglia della porta e andare fuori”. La consapevolezza maturata in terapia sono quei centimetri di liberi, sono conoscenza di sé e aprono ad un nuovo mondo più aperto e libero.

 

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