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L’insostenibile Leggerezza dell’Essere

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L’azzurro degli occhi di G. non si può dimenticare. I suoi sono occhi grandi, celesti, chiarissimi. E’ tutto ciò che ha di vivo. Distogliere lo sguardo da quegli occhi significa incontrare la cornice scavata e giallognola del volto in cui sono inseriti.

G. arriva all’ambulatorio per i disturbi del comportamento alimentare in uno stato di grave malnutrizione. La diagnosi si fa con gli occhi. E’ emaciata, scavata, spenta.

G. ha 17 anni, frequenta un rinomato liceo scientifico privato, dove la madre insegna matematica nella classe accanto.

“Sono la figlia di quella str… della Prof. M.”.

Il padre insegna fisica all’università, ha una doppia cattedra, in Italia e negli USA.

Pesante, penso…forse lo penso troppo forte…

“Eh sì, due belle teste…ovviamente sono ironica. Sono pessimi”

G. mi fa sorridere, per fortuna posso respirare, G. è viva, ha effettivamente 17 anni e un sano sarcasmo, anche se al momento di sano vedo solo quello…me lo farò bastare!

G. ovviamente ha ottimi voti, la scuola è sacrificio e apprendimento. Le ore buche sono il male del mondo, racconta, perché “si rimane indietro col programma e quegli stupidi dei miei compagni fanno casino e basta. Io mi infastidisco un sacco”.

“Mi preoccupa quasi più questa affermazione che il tuo peso!”, rido.

G. è dolce e brillante, sta al gioco…”Sai che dobbiamo fare un bel lavoro insieme?”

“Basta che non mi chiedi di ingrassare. Io sto bene così, anzi, stavo meglio prima del ricovero, mi hanno fatto mettere 3 kg, e ora sono faccio schifo.”

“Non mi permetterei mai!”

Qui non sono ironica.

L’incontro con G. è l’incontro con una ragazza che ha già intrapreso da tempo il suo personale programma di cura. L’anoressia è già la miglior cura che ha trovato per sopravvivere ad una sofferenza più grande.

L’anoressia è la sua unica identità. Al momento le uniche alternative possibili sono “la secchiona isolata dalla classe casinista” e “la figlia della prof. (ovviamente la prof cattiva, non una buona!)”.

G. non trova altro modo di presentarsi al mondo se non questo, e siccome apparentemente funziona, se lo tiene ben stretto.

Il lavoro è un altro. E’ arrivare a G., toccarla senza frantumarla, farle sentire di poter stare in relazione con l’altro cosicché possa sperimentarsi e conoscersi.

Il lavoro è portare G. a porsi una domanda su di sé. Chiedersi senza paura chi è e arrivare a sapere di potersi dare una risposta.

Non è facile. Nemmeno per un clinico. Entrare in relazione con G. significa toccare la sofferenza, il freddo, il vuoto, la fragilità e le macerie di un’infanzia appiattita sulla compiacenza e l’adeguatezza, sul soffocamento delle pulsioni e dei bisogni emotivi.

“G. non ci ha mai dato problemi. Una bambina che si adeguava a tutto.”- Racconta la prof.

Alle porte dell’adolescenza, di fronte ad un corpo che cambia, che diventa generativo ed attraente, pulsante e pulsionale, G. si inceppa “perché quella roba lì non la vuole”. Così scatta il controllo e il dca è sempre fedele alleato del controllo, nel bene e nel male.

G. ha tutto sotto controllo. G. non vuole perdere il controllo.

“…Mi tocco la schiena e la ciccia che sento mi fa schifo, dormo stando attenta a non accavallare le gambe, perché sentire il grasso delle cosce mi disgusta…quando invece pesavo con il 3 (sotto i 40 kg), dormivo rannicchiata perché mi piaceva sentire il contatto con le ossa. Il ticchettio…non tollero che gli altri mi tocchino… anni fa avrei guardato le foto delle modelle anoressiche americane che sono morte e le avrei trovate fastidiose, ora invece potrei guardarle per ore estasiata. …guardo le foto di Auschwitz e mi piacciono, mi piace quella magrezza, sono corpi piccoli, leggeri. Il corpo è un fardello pesante.”

Stare in relazione con G. significa letteralmente stare in un campo di sterminio e lottare con il fantasma della morte.

In qualche seduta credo di averlo sentito io stessa il ticchettio delle sue ossa.

Parlare di G. significa parlare del lavoro di più di un anno (per imbastire una domanda di aiuto), il fardello del suo corpo, nei miei incubi, credo di averlo portato un po’ anche io nei momenti più faticosi della terapia.

G. non è guarita con me. L’ho accompagnata fino a che ha pronunciato le parole “Va bene, ho capito…non sto bene, voglio uscirne!”.

Insieme abbiamo pensato avesse bisogno di tempo lontana da casa. Ha chiesto di essere ricoverata in una struttura residenziale, voleva condividere e sperimentarsi. Voleva che qualcuno le insegnasse nuovamente ad alimentarsi…a nutrirsi di cibo e di amore verso sé.

Ho ricevuto dopo poco una telefonata dalla nuova terapeuta. “G. è molto motivata. Si vede che ha lavorato molto”.

Non era ancora guarita. Ma era pronta a farlo.

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