“Il Naufragar m’è dolce”: sulla compulsione a dare e l’essere visti

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Quando un bisogno viene veramente soddisfatto,

la situazione cambia.

(Fritz Perls)

Claudia fa del suo meglio, sempre. Dà tutta sé stessa in tutto ciò che fa. Non si risparmia mai.

Claudia è perennemente arrabbiata: è come se girasse con un libro contabile sottobraccio. Un libro dove annota tutti i crediti che sente di avere nei confronti degli altri.

Claudia si sforza continuamente di intercettare i bisogni e i desideri degli altri, ed in effetti ha un grande talento nel farlo.

Per questo motivo si sente sempre in credito.

Più sente di dare e più aumenta la rabbia e lo sconforto perché da una parte non ne può fare a meno e dall’altra non si sente vista.

Claudia è perennemente stanca. Sente di essere sempre dentro uno sforzo. Come se non si fidasse che il fiume possa scorrere da sé. Claudia spinge il fiume ed aspetta il momento in cui potrà abbandonarvisi, divertendosi come le sembra facciano tutti gli altri. Aspetta il momento di poter provare piacere.

Claudia ha fatto un sogno: le persone fanno una festa. Banchettano allegri, non curanti della sua presenza. Si sono presi la libertà di invitare anche degli amici. Lei è esclusa da tutto questo però e a lei che il conto verrà presentato.

Claudia si sente sfruttata ed è profondamente arrabbiata con sé stessa perché le persone del sogno non le diranno nemmeno grazie e alla fine del banchetto le lasceranno pure l’incombenza di pulire e riassettare.

Claudia da piccola guardava e riguardava il cartone animato di Cenerentola, ma diversamente dalla storia, sente che la grande opportunità della vita non arriva e questo la rende ancora più rancorosa e invidiosa verso gli altri.

Claudia quando è triste si abbuffa e per qualche ora si soddisfa la voglia di tutto quello che le viene in mente: nutella, patatine, wurstel, popcorn, cioccolato e così via.

Dopo diversi mesi di lavoro Claudia riflette:

-“C’è una specie di molla dentro di me che è totalmente fuori dal mio controllo. C’è un’angoscia potentissima che io calmo uscendo dal mio baricentro e andando compulsivamente verso gli altri. Mi sono osservata in questi giorni e ho notato la mia ansia. Come se fossi un topo che deve uscire dalla barca prima che affondi. Vorrei disattivare questo motore infernale che mi spinge fuori di me facendomi occupare degli altri”

-“La tua immagine è potente”, osservo, “mi fa sentire l’angoscia di morte, lo spavento che provi. La tua compulsione verso gli altri, assomiglia alla fuga che chiunque metterebbe in atto in un momento così. Quando siamo in pericolo è naturale chiedere supporto sociale, andare verso gli altri. Solo che poi nella tua “contabilità relazionale”, non registri la cosa come “ho chiesto aiuto agli altri”, ma “ho dato aiuto agli altri”. E a quel punto si crea tutto l’equivoco, l’idea che tu sei superiore e gli altri degli stronzi che non si preoccupano di te.

-“Colpita e affondata”, commenta attonita.

“Si, prendiamo in senso letterale ciò che dici. Anzi ti propongo un’esperienza: ti va?”.

-Come scrive James Simkin nel suo “Brevi lezioni di Gestalt” (Borla), l’atteggiamento etico fondamentale del terapeuta della Gestalt è di ritenere che se sperimenti hai la possibilità di scoprire cosa ti si addice. Si si dà per scontato un modo di essere, se lo si fa proprio senza averlo masticato, non c’è possibilità di crescita.

Claudia immagina di stare sulla barca mentre affonda, ma al rallentatore, in modo di monitorare piano piano le sensazioni che l’assalgono e poterle mantenere dentro una finestra di tolleranza.

Claudia contatta la paura di soffocare, di annegare. Attraversa tutta la sua agitazione. Insieme esploriamo l’angoscia che la spinge ad agitarsi e a cercare qualcosa o qualcuno a cui aggrapparsi. Sente nel corpo tutta la tensione, tutto lo sforzo di impedire che ciò avvenga. Le sensazioni sono così vive e presenti che sorge naturale chiederle se ha mai fatto nella realtà questa esperienza.

Claudia non ha ricordi però il suo corpo sì: non si è accorta che si è completamente accartocciata sulla sedia, come se fosse un neonato nella culla.

Claudia ricorda di sogni ricorrenti in cui gridava, gridava, cercava di farsi capire, ma nessuno la sentiva, nessuno le rispondeva.

Il corpo di Claudia sembra impietrito. Claudia si sente un grande masso di marmo che affonda, scende giù. Con la mente riesce ad essere lucida e riesce ad essere presente a questa dissociazione mentre sente letteralmente di uscire dal proprio corpo che ormai è completamente anestetizzato.

Mi sento come quando si vedono le gare di apnea: mi sembra di assistere uno sportivo che si cala nel buio più profondo per tentare un record. L’alleanza e la fiducia che abbiamo costruito in questi mesi di lavoro permette questa discesa, è l’ascensore a cui Claudia si aggrappa per lasciarsi portare giù.

-“C’è qualcosa di dolce in questo naufragare”, sussurra, “proprio come  nella poesia di Leopardi”.

Io penso alle ricerche del dottor Spitz degli anni Cinquanta  sugli effetti devastanti della deprivazione materna. Tornano le immagini di quegli occhi che osservano fissi lo spazio, non reagiscono ad alcuno stimolo, di quei corpi che affondano dentro la fossa che si è creata nel materasso a forza di stare fermi.

Claudia aveva spesso raccontato di aver fatto questa esperienza da piccola, essendo figlia di una madre psicotica e gravemente depressa, ma ora si stava concedendo di esplorare quelle sensazioni che erano rimaste impresse nel suo corpo e che erano all’origine della sua risposta di iperattivazione e oblatività.

-“Claudia come ti senti in questo momento?” le chiedo con dolcezza

-“Sento il mio corpo come se fosse di carta pesta. Respiro poco e piano. Vorrei stare qui per sempre. Mi sta venendo sonno”.

Claudia da piccola era una bambina ipersonne. Era chiaro che, per la piccola, il sonno era una via di fuga.

-“Claudia”, continuo,” insieme stiamo esplorando un ricordo corporeo, stiamo vedendo come il tuo corpo sembra il luogo dentro il quale affondi, ed io noto come questo corpo sia il luogo dove tu riesci a ritirarti, nel profondo tentativo di preservarti in vita. E’ cosi?”

Claudia annuisce.

-“Si, così implosa mi sento al sicuro. Non vorrei più uscire da qui.”

-“Capisco anche che sia una situazione attraente. Un posto dove non si soffre più”.

Queste parole devono essere risuonate profondamente in Claudia, perché iniziano a spuntare delle lacrime dai suoi occhi che percorrono il suo viso ed il suo corpo. Con lo stesso effetto della pioggia nel deserto, queste lacrime sembrano avere il potere di risvegliare il corpo di Claudia e di farle tornare il desiderio di abitarlo. Questo processo dura per qualche minuto e Claudia piano piano sembra ritornare in superficie.

Ora Claudia sembra un monaco Tibetano: arriva una grande pace. Il suo sguardo è aperto e i suoi occhi sono molto luminosi.

-“Cosa hai scoperto?”, Le chiedo.

-“Che siamo entrambe sopravvissute.”

 

 

 

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