sentirsi un bluff

Sentirsi un bluff: sulla vulnerabilità narcisistica

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Che io sia al tuo fianco,

quando la tua sete verrà.

Emily Dickinson

 

“Meglio rinunciare ad una parte di me che rimanere solo”.

A tre quarti della seduta Emilio, un uomo sulla quarantina che seguo da circa un anno, sintetizza così la sua scoperta. Sembra quasi uno slogan, una frase fatta da pronunciare trionfanti, una regola salva vita che, vista la condizione depressiva in cui Emilio versa, mostra tutto il suo limite.

Emilio pronuncia questa frase, che ha il merito di sintetizzare in maniera efficace il funzionamento della vulnerabilità narcisistica dell’esperienza depressiva, alzando la testa e guardandomi negli occhi. Sembra una sfida: io non mi consegnerò mai totalmente a te.

E’ comprensibile perché le persone come Emilio sono riuscite a salvarsi, in passato, da esperienze di profonda umiliazione e conseguente vergogna, decidendo che non avrebbero più mostrato quelle parti di sé oggetto di rifiuto e scherno.

Il costo di questa decisione, presa in maniera del tutto inconscia, è estremamente elevato: questo sdoppiamento tra una parte di sé funzionante e mostrabile e una parte reietta, connotata da aspetti aggressivi e bisognosi, fa sentire continuamente di essere un bluff.

Emilio è ammirato per le sue capacità imprenditoriali, per la sua eleganza e disponibilità verso gli altri, ma tutto questo non lo nutre, perché Emilio sa che ad essere amato non è lui, in tutta la sua interezza, ma solo la parte che mostra di sé. La sua è una forma  di subdola manipolazione: Emilio estorce ammirazione con la  parte brillante di sé e, per questo motivo, quando la ottiene non prova gioia ma un’infinita scontentezza.

Emilio ha bisogno di amore, dolcezza e comprensione e sa ottenere solo ammirazione.

La sua è una gabbia dorata da cui non riesce ad uscire ed il motivo è proprio quello che dice verso la fine della seduta: è convinto che se mostra quella parte di sé a cui rinuncia morirà. Perché un bambino piccolo se viene abbandonato, se resta solo, muore.

Il lavoro di questi mesi ha mostrato ad Emilio la sua compulsione a darsi sempre nuove mete con le quali ottenere successo: il paradosso è che più ottiene successo, più si sente depresso. Questo meccanismo inarrestabile sembra scavare un vuoto sempre più incolmabile dentro di lui. Più eccelle e più i riconoscimenti che riceve gli risuonano come falsi e vacui.

Sullo sfondo dell’anima del mio paziente c’è una ferita originaria che l’ha fatto sentire profondamente rifiutato ed umiliato: Emilio aveva così cercato di riparare quella ferita cercando di “diventare qualcuno”. Alla perdita di identità, per essere sempre stato chiamato con un brutto diminutivo o, al massimo, riconosciuto come il fratello di o il figlio di, Emilio aveva risposto impegnandosi al massimo a scuola ed eccellendo in ogni campo. Ora Emilio era il “Grande” Emilio, un’istituzione nel suo campo, riconosciuto ed invidiato da tutti.

Il punto è che Emilio era un nome affettivamente svuotato, una specie di fenomeno da circo che si applaude ma, poi, quando lo spettacolo finisce, resta solo in camerino a struccarsi e a ritrovarsi dentro un senso di disperante inconsistenza.

“Questa frase mi ha fatto venire una grande angoscia”, replico, “come un muro che si para davanti alla strada che stiamo esplorando in questa seduta. Mi fa sentire in un labirinto ed ora ho un senso di grande inquietudine perché questo labirinto sembra non avere via di uscita e si disvela nella sua natura di trappola mortale”, aggiungo con profondo senso di impotenza. Dopo qualche minuto di silenzio, in cui sento che Emilio è profondamente toccato dalle mie parole, aggiungo: “sembrerebbe che siamo giunti ad un limite invalicabile, dove sento che io sono al di qua e tu al di là del muro”.

“Eh dottoressa”, dice con sarcasmo Emilio, “le toccherà accettare di aver fallito con me”.

“E a quel punto, lei mi amerà lo stesso?”, chiedo provocatoriamente.

La nostra seduta si conclude su questa battuta. La strada attraverso cui Emilio imparerà a consegnarsi alla nostra relazione terapeutica sarà lunga. Sento che Emilio ha bisogno che io, per prima, gli mostri che è possibile esistere anche se gli altri sono delusi da noi. Che è possibile essere esposti ad uno sguardo insostenibile e poterne uscire vivi, nonostante il senso di profonda vergogna che questa esperienza può muoverci. Perché è proprio l’attraversamento del dolore e degli stati depressivi  che accompagnano, inevitabilmente,  questo tipo  di rese  al bisogno che abbiamo dell’amore dell’altro che consegnerà Emilio ad una vita piena e soddisfacente. E’ soltanto consegnando all’altro le parti impresentabili di noi, che l’amore e la fiducia entrano nella nostra vita.

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