terapeuta-cura-senza-fare-niente-divenire-magazine

Quando il terapeuta cura senza dire niente

Reading Time: 4 minutes

Vorrei in questa occasione fare qualche esempio di come in una relazione di cura (in cui si sia instaurata un’alleanza terapeutica e una fiducia di base tra terapeuta e “paziente”), l’intervento dello psicoterapeuta possa essere potente e significativo al di là delle parole.

Per farlo, voglio raccontare tre differenti esperienze che rispecchiano tre dei possibili livelli di intervento – tra i mille possibili- aventi come obiettivo il supporto e la stimolazione delle  risorse personali di chi chiede aiuto e il superamento dei suoi limiti e dei suoi blocchi emotivi che spesso sono legati ad esperienze traumatiche che agiscono a livello inconsapevole. Si tratta di tre interventi che, come preannunciato, non contemplano alcuna verbalizzazione.

Il primo esempio riguarda l’esperienza di Roberta, una donna sulla quarantina, con una storia familiare molto complessa, intrisa di dinamiche disfunzionali, manipolatorie e denigratorie. Roberta, per sopravvivere in quel contesto, ha imparato a tenersi tutto dentro, a risultare apparentemente compiacente, remissiva, covando però intimamente una rabbia potente, un senso di ingiustizia e di ribellione che tuttavia non è mai riuscita ad esprimere in modo evoluto. Nel corso della terapia abbiamo più volte dato voce e spazio a queste emozioni a lungo represse, ma sembra che ricorrere al ruolo della vittima sia una modalità per qualche aspetto più vantaggiosa per lei, piuttosto che assumersi la responsabilità del suo sentire, viverlo fino in fondo e lasciarlo finalmente andare. Di tanto in tanto, in terapia, la sua strategia di fuga dal sentire è quella del recriminare, disperarsi per i torti subiti per poi chiudersi in un mutismo annichilito e impenetrabile. A poco sono serviti tutti gli interventi che, di volta in volta, ho messo in atto per aiutarla ad uscire da questo circuito di risposta disfunzionale. Un giorno, di fronte al suo ennesimo ritiro rancoroso e inespugnabile, decido di “sfidare” il suo funzionamento, le sue difese, e a fronte di un suo silenzio arroccato, inaccessibile, scelgo – diversamente dalle volte precedenti – di rimanere in silenzio anch’io, annunciando che aspetterò che sia lei, questa volta, a riprendere l’interazione.

Abbiamo passato 40 minuti in silenzio. Un silenzio in cui ho dovuto lavorare costantemente sulla mia presenza, sul mio esserci, senza giudizio, fiduciosa e aperta nei suoi confronti. Finché Roberta, d’un tratto, senza sollevare il capo reclinato su se stessa, ha lanciato uno sguardo nella mia direzione. I nostri occhi si sono incontrati. Ho sollevato le sopracciglia e le ho sorriso. Roberta ha cominciato a piangere e a ridere insieme: sapeva che, in questa occasione, facendo uno sforzo per uscire dalla posizione passivo-aggressiva e cercando lo sguardo dell’altro, era riuscita a superare le sue resistenze e a mettere in atto una risposta diversa da quella che conosceva bene ma che le impediva di andare oltre uno schema consolidato e automatico.

Il secondo esempio che voglio portare è quello di Marta, una professionista molto in gamba, con un Io sufficientemente strutturato, molte risorse, e un percorso pregresso di analisi classica che le ha dato tante consapevolezze ma non l’ha aiutata fino in fondo a gestire le crisi di ansia che, spesso, la attanagliano. Ha chiesto il mio aiuto sapendo che utilizzo Somatic Experiencing. Il lavoro con lei è stato intenso e molto efficace. L’ansia è stata finalmente superata ma un giorno, durante uno dei nostri colloqui, emerge un dolore profondo al petto. Esplorando questa sensazione, Marta rievoca immediatamente un evento luttuoso e ancora doloroso per lei: la morte – a pochi giorni dalla nascita – del primogenito tanto desiderato e amato. La accompagno ad attraversare questo dolore. Il suo corpo si scuote per i singhiozzi, si ripiega su se stesso, dalla gola esce un lamento strozzato. Sono lunghi minuti di disperazione, di strazio, in cui il suo corpo è piegato e sopraffatto dal dolore. Non c’è nulla da dire. Le chiedo solo il permesso di avvicinarmi, di appoggiarle delicatamente la mano tra le scapole, a sostegno della zona del cuore. Mentre lei cavalca l’onda del suo dolore, lasciandosi attraversare completamente da quest’ultimo, io sono con lei. Accolgo il suo vissuto, offro un contenimento (rappresentato dalla mia mano a contatto della sua schiena), “scarico” a terra tutta l’energia che si muove in quel campo, sono silenziosa ma testimone partecipe della sua discesa negli abissi. Non una parola, non ce n’è bisogno, sarebbe un’interferenza. Il sentire profondo trova altri canali di espressione, e di comunicazione. Io sono con lei, nel suo inferno, le tengo la mano facendo, per lei, quel lavoro di radicamento e di ancoraggio al presente che impregna il campo e le permette di non lasciarsi inghiottire dal dolore. Fintanto che, cavalcata l’onda, Marta piano piano riemerge, si riassesta lentamente, torna nel qui e ora, e mi ringrazia con un lungo, silenzioso abbraccio. Mi dirà, poi, di non aver mai potuto vivere in questo modo il suo dolore: senza tentativi di consolazione o futili commenti.

Infine, voglio raccontare di Fabio, un ragazzo con una storia difficile di abusi infantili. Fabio ha sviluppato una modalità di funzionamento per cui, a fronte di qualcosa che lo mette a disagio o lo fa stare male, si dissocia dal proprio corpo e inizia a rimuginare in  modo ossessivo e distruttivo. Il nostro lavoro sul recupero del suo sentire è stato lungo e delicato. Tenere Fabio presente a se stesso, anche all’emergere di emozioni spiacevoli, è stato impegnativo e ha richiesto tutta la mia attenzione per evitare di riattivare in lui dei vissuti di intrusione ma, contemporaneamente, stimolarlo a rimanere in ascolto e consapevole del suo sentire. Non dimenticherò mai la prima volta che – dopo molto “allenamento” –  Fabio, contattando un tema doloroso, si è permesso di far scendere delle lacrime dal suo viso. In quel momento abbiamo passato lunghi istanti di silenzio  in cui io, lì per lì, non ho fatto altro che posare su di lui in modo discreto il mio sguardo amorevole. In questo caso non c’era né una “sfida” alle sue resistenze, né un contatto (sarebbe stato fuori luogo ed eccessivo per la storia di questo ragazzo). Solo un semplice e rispettoso silenzio di accoglienza, di compartecipazione, di estremo rispetto per ciò che si stava dispiegando. Fabio, commentando poi quei momenti, mi ha confessato che, se avessi parlato, sarebbe “svanito l’incantesimo” e sarebbe scappato – com’era solito fare – nella sua mente.

Lascia un commento

Un pensiero riguardo “Quando il terapeuta cura senza dire niente

  1. Complimenti, una sensibilità ed una capacità di presenza non comuni.
    Grazie anche per il racconto coinvolgente di queste tre esperienze.