Nome omen: le aspettative che ci precedono

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Cosa c’è in un nome? Si domandava Shakespeare interrogandosi sull’essenza di una rosa.

Ricostruendo la storia di vita dei miei pazienti, capita di recitare questa stessa frase, ritrovando nella narrazione delle generazioni precedenti la storia del nome che nei secoli è arrivato fino a loro, incoronandoli portatori di grandi valori, prodezze, responsabilità…e a volte veri e propri macigni.

Il nome rappresenta infatti il primo elemento di identificazione di un individuo in quanto tale, ed inoltre rivela l’appartenenza ad un gruppo familiare. La sua importanza deriva dalla valenza altamente simbolica che acquista nel contesto familiare: può significare l’appartenenza ad una religione, ad un’ideologia, ad un modello familiare moderno o tradizionale.

A livello simbolico, il ripetersi degli stessi nomi, all’interno di una famiglia, significa anche ereditarne moralmente le qualità e i valori, innescando il processo di trasmissione e continuità inter-generazionale.

Tornando a Shakespeare, dunque, il problema non è nel constatare l’essenza profumata della rosa a prescindere dal nome con cui la chiamiamo, bensì ad aspettarci che un narciso possa profumare di rosa a seguito di questa attribuzione di nome!

Ricostruire attraverso il genogramma (uno strumento che richiama l’albero genealogico) la struttura familiare è una prassi che seguo spesso, soprattutto nei casi di famiglie numerose. Questo mi aiuta a seguire la narrazione del paziente e aiuta lui a vedere le ripetizioni, i mandati, tutto ciò che spiega quel senso di appesantimento da cui talvolta ci si sente investiti e schiacciati. Nella terapia di Giovanna questo strumento è stato la chiave di importanti riflessioni.

Quando conosco Giovanna, lei ha già alle spalle più di 18 anni di disturbo alimentare e innumerevoli percorsi di terapia; è una donna matura, ancora imbrigliata in dinamiche di dipendenza infantile con i suoi genitori, ormai molto anziani.

Mi racconta che, fin da piccola, ricorda la presenza di un clima teso, mai particolarmente sereno e abbastanza ansiogeno in casa sua. Ricorda anche di come non si sia mai sentita legittimata ad uscire dal ruolo di “brava bambina”, mai una trasgressione, mai una marachella, con la paura che dare una delusione alla madre l’avrebbe anche potuta uccidere.

Mi sorprende come il nome Giovanna compaia ben tre volte in sole due generazioni, nome attribuito prima a due sorelle della madre, decedute entro il primo anno di vita e, racconta la mia paziente, nome che è spettato a lei, ma che sarebbe toccato ad una precedente sorella, morta in grembo materno.

La storia dei lutti precede insomma la nascita della mia paziente, funesta due generazioni, creando apprensione relativamente alla salute della mia paziente e interferisce con la creazione di un attaccamento qualitativamente sicuro.

Emergono ricordi di come il nome Giovanna, per la nonna, fosse sempre legato a grandi sospiri e come, in generale, non avesse mai capito perché la nonna fosse sempre triste.

Rileggere la propria infanzia alla luce di ciò che effettivamente l’aveva preceduta ha permesso di dare un nuovo significato al sentirsi iperaccudita, non perché debole e cagionevole, ma perché investita dell’essere la “Giovanna che deve sopravvivere, che non può farsi male, che non può rischiare.”

Giovanna può essere una donna forte, può essere ciò che sente, cercando di prendere consapevolezza della propria identità, al di là del proprio nome, al di là di ciò che gli altri si aspettino che sia.

Dobbiamo in fondo tutti legittimarci a scoprire la nostra essenza, al di là delle aspettative che ci precedono…così come hanno fatto Allegra, quindicenne arrabbiata con il mondo, che scappava dalle battute sulla sua mancata allegria; Serena, vittima a suo dire di una maledizione secondo cui non lo sarebbe mai stata nella vita; Francesco-tu-farai-grandi-cose, unigenito con il nome del nonno, grandissimo architetto…

Con l’augurio che ciascuno di noi possa scoprire cosa fa di sé una rosa unica al mondo.

 

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