Non so cosa sia l’amore, di certo non uno psicofarmaco. La simbiosi nella coppia - Divenire Magazine

Sul dolore che viene dalla nostra durezza

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In questi giorni sto riprendendo a lavorare.
Il mio lavoro non coincide con il colloquio in presenza o in remoto che sia. Sebbene questo sia comprensibilmente il percepito dai miei clienti, perché pagano la seduta, nella realtà ciò che un terapeuta “fornisce” non si limita al tempo della seduta.

Ricordo una barzelletta di un bravo idraulico che presento’ un conto salato alla signora disperata che non riusciva a trovare qualcuno che le facesse ripartire la caldaia. Nelle specifiche della fattura c’era scritto: “1,1 centesimi per aver dato una martellata; 88,99 per aver saputo dove darla”.

Il lavoro di un terapeuta non si manifesta quindi nella singola “seduta-martellata”, stando nella metafora della barzelletta, ma una quota molto elevata del suo contributo al percorso terapeutico avviene al di fuori della seduta attraverso un lavoro ” preparatorio” costante attraverso non solo lo studio, la formazione, le supervisioni o le intervisioni, ma soprattutto tenendo viva la relazione con quella persona dentro di sé.

Molti pazienti credono che l’interruzione terapeutica estiva serva a loro per misurarsi con le risorse sviluppate durante il lavoro dei mesi precedenti, un po’ un test per verificare a che punto sono nel loro cammino verso la capacità di stare di fronte a se stessi e all’inevitabile sofferenza con cui ognuno fa i conti in questa esistenza. Altri pensano che l’interruzione serva al terapeuta per ritemprarsi dalla fatica dell’ “esserci” per l’altro. Sono idee valide, certo, ma non esaustive del valore e del significato dell’interruzione estiva dalla terapia. Ve ne accenno una delle tante componenti del valore terapeutico intrinseco all’integrazione, perché il tema è davvero vastissimo.

Riprendere il lavoro qualche settimana prima di tornare ad incontrare i miei pazienti significa ad esempio fare il punto di tutta la narrazione e di tutte le intuizioni che ho accudito rispetto ai miei pazienti in questi mesi. Le letture, i dialoghi, gli incontri, le esperienze mi hanno fatto venire in mente qualcosa di quella tal persona ed ora provo a mettere insieme questi elementi come tessere di un mosaico che si può ricomporre in modo diverso proprio grazie alla distanza creata dalla pausa estiva.
Durante questo lavoro che assomiglia molto, per certi versi, al lavoro dell’artista, oggi mi soffermo ad ascoltare un’ansia che si agita dentro me come un’inaspettata brezza.
L’ansia può essere una grande alleata: come una spia si accende per segnalare una preoccupazione, un timore, una paura.
Cosa temo dunque?
Mi sono resa conto che ho timore di incontrare il dolore che nasce dalla durezza che molti dei miei pazienti presentano quando perdono l’allenamento settimanale alla gentilezza e alla compassione verso loro stessi.
La durezza non appare mai come qualcosa di definito o preciso. Si tratta di un clima di fondo che porta a guardarsi e a guardare con giudizio severo ogni singolo accadimento perdendo di vista il portato infinitamente più ampio che quell’esperienza può rappresentare per quell’individuo che, preso dalla sua tendenza ad una visione appiattita sul disprezzo di sé o degli altri attraverso le sue abitudini di pensiero, non riesce a scorgere null’altro che un senso di fallimento o di delusione alimentando rifiuto, autocommiserazione o rancore.

È incredibile quanto questa postura esistenziale sia foriera di sofferenza e quanto potere abbia di distruggere i delicati germogli che con tanta pazienza il lavoro terapeutico ha accudito.
Li ritroverò? ecco a cosa allude la mia ansia: si tratta del mio attaccamento a ciò che ho lasciato a luglio.
Ora mi appare chiaramente che questo mio attaccamento non favorirebbe affatto il mio cliente che giustamente troverebbe in me un terreno che amplifica il suo senso già martoriato e mortificato di sé , temendo di deludermi.
Oh si, eccola lì la mia durezza proiettata sul mio cliente!
Mi abbasso e raccolgo un po’ di sabbia da sotto la sedia. La stringo forte forte e più stringo è più lei si disperde.

Il dolore che proviene dalla nostra durezza proviene dal non essere disposti ad aprirci, a dimorare nella nostra paura.
Affrontare le nostre paure, lavorare per essere disposti a lasciarle entrare, è l’essenza del lavoro terapeutico che coinvolge entrambi, il terapeuta come il paziente.

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