È la domanda che più mi ossessiona in questo periodo quando ascolto gli scambi delle persone in spiaggia o leggo le conversazioni sui social. In alcuni momenti lo vorrei urlare per esprimere tutta la mia disperazione rispetto alla grande disconnessione che c’è tra gli uni e gli altri. Ma la vita non è un setting di psicoterapia ed io non lo posso fare ed è un gran peccato perché questa è una domanda molto potente. Essa permette di fermarsi e di tornare per un attimo a noi stessi e di provare ad ascoltarci. Si tratta di interrompere un flusso infinito di parole per provare ad ascoltare la paura, l’impotenza e la sfiducia che ci abitano. Quando la propongo ai miei pazienti l’interruzione, quando va bene, dura qualche secondo e poi riprendono da dove si sono interrotti come se nulla fosse accaduto. Quando faccio loro la domanda: “hai notato cosa è successo?”, loro che sono totalmente presi dal loro labirinto di parole, mi guardano attoniti come per dire: “perché è successo qualcosa?”. Accorgerci di noi è un primo fondamentale passo. Accorgerci che non siamo in grado di stare ad ascoltare ciò che veramente sta accadendo dentro di noi per nemmeno un minuto è fondamentale: se non ci sappiamo stare noi con le nostre emozioni, se non siamo disponibili a sentirle, perché mai dovrebbe farlo un altro? Tutti questi fiumi di parole che parlano di tutt’altro rispetto a ciò che si agita dentro di noi, mi arriva come una grande richiesta di contenimento. Essa reclama, come un bambino piccolo, il bisogno che qualcuno ci Tenga-dentro, perché questo è il significato della parola Comprendimi: tienimi dentro per favore perché io non ce la faccio.
Quando siamo smarriti e traumatizzati chiediamo questo e spesso, dato che non ne siamo consapevoli, pretendiamo che sia l’altro a capirci, ad ascoltarci o a “darci ragione”, che vuol dire validarci, dire: “quello che dici ha valore per me”. Ciò che avviene nel macro come nel micro è che c’è una competizione: capiscimi tu per primo e poi semmai ti capirò io. Se nella relazione individuale con il terapeuta questo è un assunto implicito, nelle terapie di coppia o di gruppo questa pretesa inconsapevole emerge di più.
È chiaro che per accogliere ciò che l’altro ci porta non serve uno scambio sul piano razionale, in particolare quello dei numeri a cui tutti ci appelliamo con una frequenza direi sempre più preoccupante (il detto “dare i numeri” la dice lunga, di solito, sul livello di salute mentale di una persona. Ed è un’espressione che proviene dalla saggezza popolare, non l’ho inventata io). A birilli fermi siamo in grado tutti di comprendere che è il piano emotivo dello scambio che manca. E manca perché l’intimità con noi stessi è venuta meno, abbiamo perso la capacità di accogliere le nostre paure e quindi non siamo più in grado di offrire all’altro empatia, che è ciò che ci sta chiedendo. Un’empatia che ci porterebbe a ritradurre ciò di cui si sta parlando in parole più calate dentro la nostra piccola esperienza individuale e non dei massimi sistemi. Un’empatia che ci permetterebbe di incontrarci e vederci sul piano umano e solo successivamente di accettare di avere opinioni diverse, perché a quel punto le opinioni resterebbero tali e non diventerebbero modi con cui mozziamo la testa all’altro come talebani.
È evidente che se ognuno è nel proprio di panico non può offrire questo tipo di contenimento. È evidente che se ci sentiamo non riconosciuti, giudicati e offesi non saremo empatici e saremo pronti a finire in una spirale di risentimento che ingrosseremo scegliendo parti della realtà per mantenere questa visione.
Quando nel marzo 2020, all’inizio della pandemia, ci chiedevamo se questa emergenza avesse migliorato le persone, ognuno faceva le sue congetture. Ad oggi sappiamo di per certo che questa esperienza sta facendo emergere tutte le nostre paure. Paure che non ha inventato il Covid. Paure che c’erano prima e che ora la situazione ci obbliga a sentire. La via più semplice per gestirle è trovare un nemico: basterà sconfiggerlo e tutto tornerà a posto. In questa illusione ci siamo dentro tutti. Abbiamo tracciato una linea e abbiamo deciso da quale parte del campo stare, giocando una partita che ha regole diverse a seconda del campo in cui si sta e soprattutto avendo due arbitri che agiscono in base al regolamento dell’una o dell’altra squadra. Questa situazione di caos non può che smarrirci ma ha in sé la potenzialità di risvegliarci dentro un processo molto lento, seppur inesorabile, di cambiamento del tessuto sociale che avverrà quando accetteremo che noi dobbiamo essere il cambiamento che desideriamo negli altri. (Cit.)
Solo che il processo è molto lento e i nostri bisogni di certezza impellenti.
La pecca della strategia TROVA-UN-NEMICO-E-COMBATTI è una sola: rendiamo l’altro estremamente importante, ne diventiamo dipendenti. E più è importante è più lo odieremo. Un adolescente potrebbe spiegarci molto bene in cosa consiste l’esperienza.
Avere il coraggio di interrompere le conversazioni e chiederci “di cosa stiamo parlando veramente” potrebbe dare il via a ulteriori colpevolizzazioni oppure potrebbe far fare un clic e spostare lo scambio su un piano più intimo. Parliamo di più di ciò che ci fa paura. E ricominciamo da lì.