Sapevo che poteva succedere. Anche io sono Alessia Pifferi

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“Quando ci apriamo alla possibilità che nulla di umano ci è estraneo, quando sentiamo che tutto ciò che accade nel mondo ci implica, stiamo iniziando a scegliere di stare dalla parte della vita.”
(Gloria Volpato)

Questa frase riportata dai quotidiani che avrebbe pronunciato la mamma della piccola Diana mi scuote.
Mi tocca profondamente perché è qualcosa che è capitato anche a me di pensare più volte ritrovandomi di fronte alle conseguenze delle mie scelte, così come l’ho sentita pronunciare dai miei pazienti.
Se sappiamo che stiamo facendo scelte sbagliate perché allora proseguiamo nel nostro intento?
E’ un tema centrale della psicologia e delle scienze umane e spirituali, perché solo a noi, diversamente dagli animali, è data la libertà di scegliere. Ma quanta parte della nostra educazione e formazione viene dedicata a questo tema così centrale della nostra esistenza e che influisce non solo sulla nostra vita ma anche su quella degli altri?
Quanto spazio diamo alla consapevolezza e alla capacità di assumerci la responsabilità delle nostre scelte?
Pensiamo alla situazione climatica attuale. Non credete che ad un certo punto, non contenti dei già tanti segnali preoccupanti, proclameremo insieme questa frase: “sapevamo che poteva succedere”?.
Tutti noi scegliamo di correre dei rischi sapendo che potremmo danneggiare qualcun altro. Basti pensare alla scelta di evadere il fisco, buttare plastica in mare, premere sull’acceleratore o mettersi al volante ubriachi. Tutti noi scegliamo di mentirci rispetto al nostro vero intento. Basti guardare un serial di successo per vedere questo tema così centrale nella psicologia umana in azione. Proprio perché ci riconosciamo ne siamo compulsivamente attratti.
Anche gli esempi a livello storico potrebbero essere infiniti, basti pensare alla scelta di alcuni governi di impedire l’aborto legale o di commercializzare armi.
Sapevamo che poteva succedere, eppure proseguiamo nel nostro intento per cui assecondare il nostro impulso esclude il bene sia per noi stessi che per l’altro.
Chi si comporta così è un bambino che, come diceva Freud che definiva gli infanti dei perversi polimorfi, è guidato prevalentemente dall’istinto del piacere come – mi vien da dire la piccola- Alessia madre della Piccola Diana.
Questa vicenda non è la storia archetipica dell’orfana e della matrigna, bensì quella di un’orfana e di una madre-bambina.
È ciò che osservo tipicamente nel mio lavoro: ci sono parti infantili che vengono lasciate morire. Parti di noi che sono oggetto di rifiuto e di scherno perché non sono presenti in noi parti materne e paterne disposte a prendersene cura. (A proposito avete notato che in questa vicenda il ruolo maschile o è dell’assente giustificato come il padre o è dell’ingenuo giustificato come il fidanzato?)
Abbandonare il nostro bambino interiore significa perpetuare i sintomi e le sofferenze eppure, come dicono tutti, “non posso farne a meno, proprio non riesco (=non voglio) accettarmi, a prendermi cura dei miei bisogni fondamentali, ad amarmi.” Già, anche Alessia con Diana proprio non riusciva e non voleva.
Perché non chiedere aiuto allora? Se torno nelle situazioni cliniche che ho descritto c’è un grande drago che impedisce all’essere umano di spingersi al di fuori di sé e mostrare una propria fragilità: l’Orgoglio. E sapete cosa alimenta questo Drago dell’Orgoglio: la Vergogna, cioè la paura di essere rifiutati. Ci riguarda? Ci riconosciamo?
Così fuori, così dentro, dunque. Nulla ci è mai estraneo.
Nessuno quindi può chiamarsi fuori da questa vicenda, perché essa ci appartiene da vicino più di quanto pensiamo, poiché tutti preferiamo anestetizzare quella piccola, innocente e vitale parte di noi piuttosto che intraprendere la strada di diventare genitori di noi stessi. Ciò è possibile se siamo sostenuti, come nel caso della psicoterapia in cui il terapeuta esercita – temporaneamente – la funzione genitoriale che ripara la nostra a partire dai modelli di accudimento che abbiamo introiettato. Ma se nessuno riceve questo sostegno come fa? Semplice, non lo fa o lo fa male. Poiché nessuno può agire qualcosa che non conosce.
Inoltre questa vicenda drammatica racconta come l’archetipo dell’Orfano è attivo anche a livello collettivo, laddove tutti sono degradati a livelli sempre più infantili da un mondo genitore che insegna l’etica “io prima di tutti”. Nell’illusione di accontentarci, come la strega di Hansel e Gretel che li voleva ingozzare con lo scopo di mangiarseli, il consumismo, come nel mito di Crono, ha come ultimo obiettivo quello di disumanizzarci attraverso la costante anestesia in cui ci immerge. La cultura madre ci dà cibo e psicofarmaci. Non risulta così estraneo che una persona fragile possa aver messo in atto un aspetto più che accettato sul piano collettivo, no?
E se smettiamo di essere umani, smettiamo di essere vivi.
Quindi? Il primo passo è abbassare il dito, riconoscere che a vari livelli c’è una Alessia dentro di noi e che nessuno in questa tragedia può proclamarsi innocente.
Quando ci apriamo alla possibilità che nulla di umano ci è estraneo, quando sentiamo che tutto ciò che accade ci implica, stiamo iniziando a scegliere a stare dalla parte della vita.
In questo modo ci impegniamo a salvare in questo clima culturale da Re Erode in cui viviamo, l’innocente che è in noi e negli altri tutti i giorni e non solo a Natale.

#weareallone

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