Le ferite della cura

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Sembra un paradosso pensare che una cura possa produrre delle ferite ma, durante la giornata di supervisione e fioritura personale per psicologi e operatori della salute “Il dono della terapia” di sabato scorso, abbiamo toccato con mano quanto il processo di terapia e guarigione dei nostri clienti ci tocchi e ci coinvolga in maniera talmente profonda che può produrre delle ferite. Abbiamo capito che proprio per evitare di essere toccati dal processo in atto mettiamo delle maschere, ci irrigidiamo creando disconnessione con il nostro paziente il quale può a sua volte rivivere esattamente quell’esperienza di abbandono o perdita di controllo che è alla base della sua sofferenza.

L’ottica di guardare alle proprie ferite quando incontriamo una difficoltà con un paziente è qualcosa di impensabile e quindi di faticosamente avvicinabile per la maggior parte dei colleghi che si sono formati guardando ai pazienti come a dei casi e lavorando in supervisione facendo diagnosi precise e definendo la natura degli impasse incontrarti in terapia.
Non che questo approccio non sia significativo o utile, semplicemente è il più utilizzato e per questo motivo esplorare la situazione terapeutica a partire da sé anziché dal paziente, richiede una certa dose di coraggio per uscire dalla confort zone e partire da nuovi assunti.

Proprio perché “nella misura in cui siamo impegnati a fare anima, siamo tutti, ininterrottamente, in terapia” come scrive Hillman, non è semplice passare dal format più frequentato, che prevede di mettersi in relazione con i vissuti transferali e controtransferali al fine di attraversare le frustrazioni e disporre le risorse necessarie per supportare il paziente ad attraversare i momenti critici del percorso, ad un format che si radica nella psicologica buddhista che parte dal presupposto che il senso del sé e della separazione dagli altri è fittizio ed è generato da attaccamento, illusione e identificazione (che sintetizziamo nella parola Maschera).

Anche per me non è stato facile all’inizio aprirmi a questa prospettiva di lavoro. Ma sono stati proprio i miei pazienti a farmi capire la necessità di un cambiamento di paradigma laddove le difficoltà del processo terapeutico altro non erano che un invito a prendermi cura di quelle parti di me che non avevo ancora integrato. Perché come mi disse Sisto Vecchio, un grande psicoanalista bergamasco, “un analista non dev’essere quell’abito che va bene per tutte le stagioni”.

Ed è incredibile quanto potenziale sia sul piano della fioritura personale che sul piano dell’efficacia terapeutica si dispiega quando affrontiamo il viaggio eroico di entrare dentro noi stessi e scoprire da cosa ci stiamo difendendo, avendo il coraggio di deporre la maschera, che spesso il ruolo ci fa indossare nell’illusione che si possa essere al di là del bene e del male, e guardare da vicino ciò che stiamo vivendo nel profondo di fronte ai movimenti espliciti o impliciti del nostro cliente.

Ci vuole un’enorme fiducia nel gruppo di pari fatto di colleghi per mostrarsi e lasciarsi sostenere nell’incontrare i propri demoni. Per questo motivo nel seminario di sabato abbiamo dedicato molto tempo ad entrare in contatto e a creare uno spazio sicuro e di alleanza empatica.
E’ un atto di indubbia umiltà quello di accettare l’invito che i nostri pazienti ci fanno a tornare sulle nostre frammentazioni, a frequentare certe stanze del nostro mondo interiore che credevamo “sistemate” a sufficienza.

Abbiamo sperimentato il potere della presenza nella relazione, di cui abbiamo toccato il corpo perché la relazione è un corpo dentro il quale vivono i corpi-psiche del terapeuta e del paziente.
Abbiamo risperimentato il potere delle parole che attingono forza dall’essere entrati in contatto con il nostro vissuto e che si fanno successivamente, al nostro ritorno dai nostri inferi, carne e comunicazione efficace nel rapporto con il cliente.

Come suggerito sempre da Hilmann, nel suo “Re-visione della Psicologia”, abbiamo sperimentato come non esistano casi ma soltanto persone in situazioni. “E allora, getta via tutto, parti dal nulla (nihil), sii semplicemente presente con semplice autenticità, comunica, incontra. Sii aperto, usa l’intuizione – ma, innanzitutto, consenti all’altro di esistere in qualunque stile di vita, “folle” o “sano”, egli preferisce. Il confine tra follia e sanità che, situando alcuni eventi al di qua e altri al di là, ha creato il campo della psicopatologia, è un invenzione positivistica e non una realtà esistenziale”.

Ringrazio tutte le partecipanti di questo breve percorso in due tappe per essersi lasciate smarrire, confondere, decentrare, diseducare, aprendosi così alla possibilità di costruire quella realtà condivisa che ci riporta ad un livello inatteso di creatività, bellezza, libertà, compassione e gioia.

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