Quell’insaziabile bisogno di essere nessuno

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Ogni tanto ho bisogno di un reset: mi sento talmente confusa con i miei ruoli, il mio carattere e l’immagine di me che ne deriva che sento la necessità di disintossicarmi e di ritrovare la mia nudità per percepirmi in maniera più realistica.
Chi sono io quando non c’è nessuno che mi conosce a qualche livello dal più profondo al più basilare, che stimola parti di me in base al pezzo di vita che abbiamo condiviso o stiamo condividendo? Chi sono io senza la mia storia rispecchiata dagli altri?
Si parla molto di disintossicazione sul piano prettamente alimentare e poco sul piano emotivo e mentale. Siamo così immersi nelle proiezioni nostre e degli altri che finiamo per recitare sempre gli stessi copioni, a pensare che quella persona lì siamo noi e a restringere l’idea di noi in spazi sempre più asfittici che rischiano di renderci incapaci di aprirci a nuovi modi di sperimentare le cose, gli spazi, le persone e in ultima analisi, noi stessi.
Per me la pratica della presenza non ha a che vedere unicamente con il momento della meditazione “formale” in cui sto seduta su un cuscino nel silenzio, per me praticare significa coinvolgere tutte le situazioni della vita: vedere, ascoltare e sentire durante l’intero corso della giornata mantenendo il più possibile uno stato di totale presenza a ciò che accade dentro di me.
L’incontro con una città con la sua struttura ha un forte impatto: dopo tante esperienze da sola in natura ero curiosa di confrontarmi con questa dimensione. Com’è lasciarsi arrivare una città sin dai primi momenti? Che cosa incontro di me stessa? Le mie paure, i miei pregiudizi, i miei pensieri. Com’è il mio respiro? Una città è come un amante sconosciuto: quali parti di me toccherà? Muoversi lentamente e lasciare che questo organismo vivente che è una città dia fondo a me stessa.
Quindi l’obiettivo di questo modo di viaggiare da “praticante” non è l’accumulo di cose da vedere, ma lasciare che la città stessa nella sua complessità pratichi con me attraverso la sua influenza. Diventa così un viaggio privo di meta, un processo continuo in cui immergersi osservando la mia capacità di rispettare ciò che si manifesta in me, di accoglierlo senza intervenire per cambiarla o per lo meno di accorgermi quando cerco di sfuggire. Forse questa potrebbe essere una nuova frontiera del viaggio di gruppo in cui condividere il movimento negli spazi di una città nel silenzio e nell’ascolto profondo di ciò che momento per momento accade in noi: chissà che prima o poi non lo realizzi.
Muovermi da sola in due città molto diverse in pochi giorni è stato molto più sfidante che camminare in un bosco.
Nella mia esperienza il bosco o l’ambiente naturale in generale accolgono e risorsizzano da subito, mentre la città mi ha subito fatto fare i conti con il mio bisogno di sicurezza in tutte le sue forme. La forza con la quale una città si impone mi faceva sentire schiacciata. Mi sembrava che esigesse che mi definissi, un po’ come nell’esercizio in cui qualcuno ti pone all’infinito la stessa domanda: “chi sei tu?”.
Stare in uno spazio in cui non poter godere del riconoscimento di qualcuno, sentire di non essere né vista né importante mi ha messa in contatto con il vuoto del mio senso di identità, come se tutto ciò che sapevo di me fosse frutto di immaginazione e fosse del tutto irreale.
Ho accolto questo senso di irrealtà. Giravo un po’ come uno zombie con una ferita aperta. Avevo bisogno di camminare tenendomi entrambe le mani sulla pancia che sentivo tremarmi dentro. Osservavo quanto questo tremore mi allontanasse da tutta la bellezza che mi circondava e che a tratti era soverchiante.
La cosa è andata avanti per i primi due giorni. Ad un certo punto mi sono seduta e ho ascoltato tutta la fatica che derivava da una qualche forma di resistenza e di rifiuto di ciò che mi accadeva.
Ho sentito il desiderio di essere accolta, di trovare una qualche forma di rifugio. In quel momento la mia attenzione si è spostata sul suono degli uccelli presenti nello spazio intorno a me che insieme al vociare delle persone creavano una sonorità molto rilassante. Tenendo le mani sulla pancia ho lasciato che questa esperienza venisse accolta da questo spazio sonoro e mi sono addormentata. Quando mi sono svegliata mi sentivo riposata e a qualche livello liberata. In quel momento ho pensato alla forza e alla grazia che si generano dall’istinto di sopravvivenza.
Quel dolore simile ad una ferita che sentivo nella pancia si era trasformato in un senso di pienezza. Mi sentivo finalmente parte. Quelle cose che ho sempre letto sul fatto che praticare e vivere diventano una cosa sola, che la comprensione diviene un’esperienza incarnata, erano qualcosa che sentivo di riconoscere come vere e mi sono sentita a qualche livello a casa.
Quando pratichiamo, tutto pratica con noi.

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