Sulla cecità che mostrifica

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È quanto mai attuale il tema affrontato in questo film di Justine Triet e vincitore della Palma d’oro al 76º Festival di Cannes.
In queste ore di apprensione per la scomparsa dei due ragazzi veneti, quante proiezioni e speculazioni si fanno.
Questo film mostra quanta cecità ci abita, quanta necessità abbiamo e aspettativa di trovare la mostruosità nell’altro soprattutto nelle dinamiche amorose.
Sembra una forma di rogo, di esorcismo moderno, quella della creazione mediatica del mostro.
Questo bisogno di sezionare come anatomopatologi la sofferenza altrui.
Il film mostra molto bene le derive pericolose, le dimensioni perversa e violenta che può assumere un processo alle parole e alle intenzioni di qualcuno.
Ma chi sta violando e violentando chi?
Come nella fiaba del re nudo, è il figlio undicenne ipovedente, l’unica e reale vittima della vicenda, ferito due volte perché esposto alle dinamiche private della coppia, rese pornografiche dalla meccanica profanatrice del tribunale, che cerca di vedere un senso e propone l’unica prospettiva sana e adulta di tutta la storia: quella di uno stato di sofferenza che non trovava via alternativa di sollievo.
È l’innocente che espia le colpe e salva gli adulti. È lui che incarna quella compassione che manca come l’ossigeno durante tutto il film e che ci tiene in costante tensione.
È lui che ci riporta nel calore della comprensione, quella che dà ad ogni manifestazione umana la possibilità di essere accolta perché non più estranea.
La creazione di mostri entra nelle menti delle persone più fragili, insemina l’inconscio, insegna una via risolutiva a chi soluzioni alternative alla propria, negata sofferenza non ha trovato.
È urgente una riflessione collettiva sul nostro ruolo sociale e sulla nostra responsabilità in queste situazioni.
Anziché ossessionarci per il mostro di turno, chiediamoci perché ne siamo così morbosamente attratti.

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