In questi giorni di grandi dibattiti sui condizionamenti culturali dell’amore di coppia eterosessuale (a proposito, vi siete mai chiesti perché gli omicidi nelle relazioni affettive LGBT+ sono pressoché assenti?) credo che siano emersi sempre più chiaramente due aspetti: il primo è che la relazione d’amore è per sua natura regressiva e il secondo che senza consapevolezza il gioco d’amore è determinato da regole antiche che non parifica i ruoli dei giocatori.
Cosa vuol dire che l’amore è per sua natura regressivo? Vuol dire che ognuno di noi presto o tardi incontrerà gli aspetti di sè che sono rimasti piccoli e si manifestano per lo più in reazioni caratteriali automatiche che rendono difficile la crescita e il mantenimento della relazione affettiva.
Cosa c’entra il Tennis? Il Tennis è ovviamente una meravigliosa metafora della relazione in generale oltre che affettiva. Come tutti gli sport, ci insegna che una relazione è sana quando le regole sono chiare e rispettate e che è del tutto normale che ci sia un terzo, l’arbitro, che le faccia rispettare e a cui rivolgersi quando ci sono dei dubbi.
Questo aspetto non è per nulla ovvio nelle relazioni. Quindi sarebbe importante dialogare sulle regole e sulle norme che secondo noi regolamentano il nostro rapporto e scoprire se queste regole sono condivise.
Avere il coraggio di rivederle man mano la nostra vita cambia e capire che invocare regole diverse a seconda del genere non permetterebbe un vero gioco. Perché è necessario essere sottoposti alle stesse regole condivise per divertirsi e superare i nostri limiti.
Se questo ci pare ovvio nello sport, non lo è per nulla nelle relazioni: non dovrebbe più essere un tabù rivolgersi ad un terzo per essere aiutati a capire se c’è stato un fallo o un fuorigioco. Altrimenti se le regole non sono uguali per tutti non c’è divertimento possibile.
Non dovrebbe essere un tabù cercare un allenatore, che non necessariamente significa andare da un terapeuta, ma leggere, formarsi, fare percorsi di crescita personale.
Il tennis definisce il campo dell’uno e dell’altro e in quel campo ognuno è solo, sulle sue gambe e se non ci sai stare, se non sai proporre un gioco non è possibile giocare.
Se guardassimo le relazioni affettive da questo semplice punto di vista capiremmo da soli che alcune non sono vere relazioni ma miseri spazi di sfruttamento e parassitismo: che divertimento c’è a giocare con qualcuno che non ci sfida? E’ possibile giocare se dall’altro lato della rete non c’è nessuno che abbia una sua identità definita da giocatore?
Sviluppare un senso sportivo nelle relazioni significa sapere che inevitabilmente l’avversario ci mostrerà i nostri limiti, gli aspetti sui quali dobbiamo lavorare. In questo consiste una parte centrale dell’eccitazione: superare i nostri limiti, farcela, vincere sui noi stessi grazie al confronto con l’altro, per questo lo ringraziamo a fine partita.
Giochereste con qualcuno che vi responsabilizza e colpevolizza per i vostri tiri? Che vi dice di trattenervi e di non giocare come vi sentite? Che ritiene giusto avere dei privilegi?
Il tennis ci insegna a cercare un pari livello, qualcuno che gode a giocare con noi proprio per il gioco che proponiamo. E se non ce la facciamo, ma quel giocatore ci interessa raccogliere la sfida e allenarsi, fino a farcela.
Essere sportivi significa imparare dagli errori, avere proprio la gioia e l’eccitazione di andare avanti grazie a tutti gli apprendimenti delle sconfitte così come delle vittorie: quante relazioni non ci apparirebbero più come dei fallimenti a questo punto. Quanto grati saremmo a tutti i partner e alle storie d’amore che abbiamo avuto, perchè è grazie a queste esperienze, a questi campi di gioco che abbiamo potuto capire delle cose su noi stessi.
E poi ci sono i campioni, quelli che conquistano mete e risultati che solo in pochi raggiungono.
Ogni relazione parte con questo desiderio, potersi amare per sempre.
Ognuno di noi vorrebbe vincere la Coppa Davis del matrimonio, ma spesso non arriviamo nemmeno in fondo al primo torneo amatoriale.
Io credo che il Tennis Italiano, conquistando dopo 47 anni questa Coppa prestigiosa, ci insegni che non basta essere forti, non basta allenarsi, non basta avere il team giusto. C’è una cosa che è indispensabile e che fa di te un campione e quella cosa si chiama, umiltà.
Il termine campione deriva dal latino Campio, gladiatore combattente, che deriva a sua volta da Campus, campo di combattimento.
Così come sono state istituite le olimpiadi per porre termine alle guerre nell’Antica Grecia, dovremmo considerare la stessa via per porre fine alla guerra nel mondo eterosessuale.
La società dovrebbe abbandonare un approccio da tifoseria, schierarsi per partito preso, cosi come i famigliari e gli amici. Dovremmo tutti aiutare le persone a comprendere in cosa migliorarsi per giocare la partita, fare da mediatori e lavorare per un senso di giustizia e parità a partire dall’osservare le partite che noi stessi giochiamo con gli altri.
Tornare al basso, che è l’origine etimologica della parola umiltà e restare nel basso, nella terra, che è la componente di cui siamo fatti.
Per continuare a sentirci degni di questo nome: esseri umani.