Disturbo alimentare, propriocezione e senso di sazietà

Reading Time: 3 minutes

Il modo di mangiare, il cibo, le calorie, i macro e micronutrienti, la salute. La diffusione dei principi base dell’alimentazione ormai è capillare e, più o meno saggiamente, riempie pagine di libri, giornali, show televisivi e, perché no, discorsi a tavola fra amici.

Lavorando da tempo nella cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) anche io, per fortuna o purtroppo, parafrasando Gaber, mi sono addentrato nei meandri di piani alimentari, principi nutritivi, numero di pasti, spuntini e conteggio delle calorie. Tutto utile e, in alcune fasi della cura di un DCA, fondamentali. I numeri danno sicurezza, stabilità, garanzie e controllo.

Il controllo è una parola chiave. Che sia quello totale, asfissiante e capillare dell’anoressia o la sua totale mancanza tipica dell’impulsività delle abbuffate bulimiche e dei binge eaters, il controllo rappresenta uno dei cardini di mantenimento del Disturbo Alimentare. L’equilibrio tra gestione di sé e libertà è il punto di arrivo di ogni buon progetto psicoterapeutico.

Per questo un buon piano alimentare redatto da un professionista serio è un ottimo inizio e, perché no, un buon modo per mantenersi in salute senza derive ed eccessi. Quel piano alla lunga però dovrebbe trasformarsi da foglio di carta a principio mentale. Come ogni buon curante anche chi si occupa di nutrizione ambisce a che il suo paziente se la cavi con le sue gambe, che faccia propri dei principi e non solo numeri, conteggi e applicazioni varie.

Spesso i piani vengono odiati oppure seguiti pedissequamente diventando una prigione per sé e per l’intera famiglia.

Da qualche tempo mi interrogo su cosa impedisca a molte persone quel passaggio, quel salto dalla stampella offerta dalla dieta al prendersi cura di sé con una sana, flessibile ed auto controllata alimentazione.

Le risposte ovviamente sono molteplici e quello che voglio riportare in questo articolo è solo una delle moltissime sfaccettature della vicenda. Ma l’esperienza mi dice che può essere uno spunto valido e credo sia rappresentativo di un certo numero di pazienti.

Con l’evoluzione umana (evoluzione culturale e molto occidentale) votata al potenziamento del pensiero e al primato della mente sul corpo abbiamo perso la capacità di ascoltarci, abbiamo perso di vista l’ascolto delle nostre sensazioni fisiche, ci siamo scordati che il dualismo mente corpo non esiste.

La mia esperienza mi parla di pazienti lontanissimi dalle proprie emozioni e, di conseguenza, lontani dalla propria corporeità. Se pensate che il nostro secondo cervello, quello più emotivo, risiede proprio nell’apparato digerente capite come alimentazione, emozione e percezione di sé siano strettamente e indissolubilmente legate.

I pazienti alimentari, senza grande distinzione in questo tra anoressiche e obesi, sono lontani anni luce dalla percezione dei propri confini fisici, delle proprie viscere, della propria fisicità.

Le prime sono terrorizzate dalla sazietà, i secondi non la raggiungono mai. Eppure, osservando un bimbo piangere e poi calmarsi beato dopo una poppata c’è da chiedersi cosa abbia rotto un meccanismo così semplice ed efficace.

Ovviamente pregiudizi, piccoli traumi, schemi culturali, una predisposizione temperamentale allontanano l’umano dall’ascolto di sé e, soprattutto, dalla fiducia che il proprio istinto sia buono e valido.

Ci si ferma ben lontani dal senso di sazietà e soddisfazione pensando di non meritare piacere, di non potersi godere nulla, di valere poco e non solo per paura di ingrassare.

Si va oltre quello stesso senso per stordirsi, per non sentire, per mettere delle barriere tra noi e gli altri e tra noi e la nostra intimità ferita.

Per questo credo che chiunque soffra di un disturbo alimentare, possa trarre giovamento da esperienze di contatto e di ascolto di sé. Questo può sembrare un assunto semplice e scontato, eppure il percorso che accompagna una paziente alimentare ad eseguire e accettare un semplice esercizio di rilassamento può essere molto complicato.

Mi ricordo molto bene di Marta, 15 anni, anoressica. All’epoca dell’episodio che voglio raccontarvi aveva già un anno di percorso alle spalle, aveva ripreso peso e si era stabilizzata a livello di salute grazie ad un’attenzione ossessiva nel rispettare il piano alimentare. Bilancia, calorie e grammature i suoi migliori alleati.

Una buona base da cui partire per esplorare in sicurezza il mondo emotivo, gli aspetti profondi che avevano causato una serie di scelte dolorose e completare l’operazione di crescita verso una vita più sana e completa. Da questo obiettivo sarebbe scaturito un lungo e faticoso percorso di allenamento all’ascolto di sé.

Per sentire a fondo quello che si prova è necessario concentrarsi, portare l’attenzione dentro, lasciar fluire le energie, sentire tensioni muscolari, gli organi interni ci parlano, nascono immagini e sensazioni, ci avviciniamo all’inconscio.

Un semplicissimo passo è fondamentale per eseguire questo esercizio: chiudere gli occhi. Semplice eppure maledettamente complicato.

Marta non voleva assolutamente chiudere gli occhi! Guai perdere il controllo! Guai fidarsi fino in fondo! Portarla a permettersi quel semplice gesto dentro la stanza della terapia è stato un lavoro lungo e faticoso fatto di determinazione, ascolto, costanza, presenza reciproca, della costruzione di un rapporto di fiducia che non aveva mai sperimentato o di cui, forse, aveva perso la memoria.

Dopo mesi, vederla chiudere gli occhi per concentrarsi sul proprio respiro, sulla pancia che si gonfia! È stato il primo passo verso un percorso di cura più completo.

A volte obiettivi apparentemente molto semplici nascondono l’utilizzo di grandi risorse relazionali e aprono porte decisive verso la guarigione.

Lascia un commento