La fatica di guardare i figli oltre al dca

Reading Time: 3 minutes

Conosco Sara da quando aveva 13 anni. In gergo, un “dca atipico” in una preadolescente tipica. La bulla della classe, richiamata dai docenti un minuto sì…e l’altro pure! Proiettata al contesto sociale come unica mission, intere sedute a raccontarmi di amici “sfigati” e lotte con i docenti, poca la voglia di studiare, tanta quella di stare nel gruppo, tantissimi i resti di abbuffate notturne nascosti tra i libri, sotto il materasso, dietro ai giochi del fratellino.

La madre di Sara racconta di averla “scoperta” e, dopo il disorientamento iniziale, di averla “smascherata”.

Non si dà pace per non averlo capito prima.

Non si dà pace per non riuscire ad aiutare la figlia.

Si chiede dove ha sbagliato.

Le dice di non farlo.

Le dice di pensare al danno che crea anche agli altri familiari, sottraendo loro il mangiare della settimana in un colpo solo.

Le dice che si sta rovinando il corpo.

Le dice che sta ingrassando.

Le dice che glielo dice fa per il suo bene.

Dice tanto, talmente tanto che quando non ha più niente da dire ricomincia.

Mette sottochiave il cibo.

Non dice niente che Sara non sappia già. Lei si sente umiliata. Si arrabbia. Urla. Mangia. Nasconde.

Nella realtà Sara non nasconde nulla, lascia tutti i resti del suo malessere dove la madre, pulendo, possa trovarli.

La sua è già una richiesta di aiuto.

La mamma di Sara ripercorre costantemente gli stessi circoli viziosi, cercando di dire e fare la cosa “giusta” per tutelare la figlia dai comportamenti che la stanno rovinando e stanno logorando i genitori, ma, come mi racconta, “non sa più dove sbattere la testa”.

Bettelheim scriveva che nel lavoro di crescere i figli, le cose importanti si fanno momento per momento, mentre accadono i fatti della vita. Non esistono lezioni né momenti specifici per imparare. Non esiste, per fortuna, il manuale del genitore perfetto, poiché la genitorialità è fondamentalmente un’impresa creativa,  che si formula in modo soggettivo, che nasce dal confronto delle esperienze della propria vita e degli stili comportamentali acquisiti, si evolve attraverso la consapevolezza delle proprie modalità relazionali e comunicative e si consolida nel riconoscere il cambiamento (come aspetto caratteristico di qualunque crescita) come una risorsa e non come aspetto negativo.

 

La maggior parte delle reazioni che i genitori hanno di fronte al disturbo di un figlio che soffre di un DCA nascono da una comprensibile reazione ai sentimenti di impotenza, frustrazione, inutilità e rabbia che queste patologie suscitano.

Questi sentimenti sono reazioni naturali e comprensibili che tutti proviamo di fronte a problemi su cui sentiamo di non avere controllo.

La consapevolezza di un disturbo alimentare non si basa sul trovare “di chi è la colpa”, ma sul ripartire su una nuova base di ascolto nei confronti dei figli, e di sé stessi.

Le patologie alimentari sono delle vere e proprie malattie che non si curano in famiglia. Non è purtroppo sufficiente l’amore e la cura dei genitori per guarire una patologia così complessa. Spesso i genitori si sentono investiti da questa responsabilità e cadono nell’errore di cercare di controllare i comportamenti disfunzionali per curare la patologia.

Un esempio che faccio spesso ai genitori è che sarebbe come cercare di curare un paziente con la tosse, chiedendogli di smettere di tossire.

Questo non significa che i genitori non debbano essere parte attiva del processo di cura dei figli, anzi! Spesso però, nell’illusione di curare, assumono il ruolo di terapeuti, nutrizionisti, medici…prodigandosi in consigli e diagnosi, perdendo di vista il ruolo di genitore stesso.

Nel caso di Sara, un primo passo fondamentale è stato osservare come la relazione madre-figlia fosse da mesi centrata unicamente sull’alimentazione, dove la frustrazione per l’assenza di cambiamenti portava al ripetersi di buoni propositi/delusioni, offese/sensi di colpa.

Spostare l’attenzione su altri contenuti, recuperando parti buone delle figlia (nel frattempo Sara si stava impegnando a scuola, i voti erano nettamente migliorati e le note quasi scomparse). Sara stava ingrassando, ma stava anche facendo di tutto per riscattarsi nel contesto scolastico.

Nel tempo, sostenuta, la mamma ha ritrovato la capacità di rinforzarla positivamente su ciò che stava funzionando, riducendo le comunicazioni conflittuali con una ripercussione positiva su tutto il nucleo familiare.

Il passaggio da “dove ho sbagliato?” a “che cosa sta cercando di comunicare mia figlia attraverso il sintomo?” ha permesso di aprire uno spazio di ascolto in cui Sara potesse, all’occorrenza, esprimere dei bisogni, senza essere ingozzata di parole e consigli.

Il percorso di cura dei dca è lungo e complesso, necessita dell’attivazione di una rete di sostegno anche per i familiari, che devono essere accolti e guidati, poiché in prima linea, accanto ai curanti, nella gestione della patologia.

Fiducia e alleanza terapeutica, come sempre, devono essere alla base.

 

Lascia un commento