Questo tempo di crisi, di chiusure, di paure e di piccoli e grandi cambiamenti ha attivato la mia attenzione su un argomento a cui sono molto legato che definirei, in termini generici, “il diritto a sentire”.
Mi capita molto spesso di leggere sui social, o di intercettare nelle conversazioni con i pazienti, la tendenza di alcune persone a troncare le lamentale, gli sfoghi, le fatiche degli altri con: “Eh ma non ci pensi a…? E allora quelli che…cosa devono dire?”. A chi ha preoccupazioni sul lavoro, si ricorda che qualcuno ha perso la vita, a chi ha perso un familiare, si ricorda che ha una bella casa e nessun problema economico, oppure si esorta chi è sopravvissuto al virus a non perdere tempo a ricordare quanto sia fortunato.
Tutto ciò mi ricorda da vicino quei genitori che tentano di far mangiare i broccoli al proprio bambino, ricordandogli minacciosi che in Africa i bimbi muoiono di fame. Se qualcuno pensa che funzioni o ha avuto esiti positivi da questi tentativi, mi faccia uno squillo che ne parliamo.
Ci si può anche scherzare sopra, ma ogni volta che i commenti o i racconti girano intorno a questo stimolo io provo prima rabbia e poi un senso di rammarico e tristezza. Non posso fare a meno di vedere una serie di bambini naturali e di bambini interiori stroncati e frustrati nel loro sentire.
Questo non significa che non esistano casi di lamentele eccessive o futili o che non si possa pensare che nella vita esistano problemi più gravi di altri. Ma niente e nessuno ci dovrebbe impedire di esperire sensazioni, di sentire fatiche, di percepire pesantezze che sono, per natura, del tutto personali. E per tornare ai bambini e ai broccoli, ricordo che anche il disgusto è un’emozione fondamentale, e non ci sono bimbi affamati che tengano (anche se quello della fame è un problema serio e globale).
Ogni sensazione ha il diritto di essere ascoltata, accolta e accompagnata. Solo successivamente saremo in grado di decidere pesi e misure, mosse e contromosse, aggiustamenti e iniziative per prendercene cura.
Mi sono domandato perché in me emergano rabbia e tristezza rispetto all’essere condotti a pensare a chi sta peggio. Credo che il motivo sia che questa comunicazione tra individui, che a volte comincia quando siamo molto piccoli, può diventare, se ripetuta nel tempo, un dialogo interno pericoloso. Se ogni volta che provo una sensazione spiacevole e la esprimo vengo redarguito perché non è così grave, non è importante, perché c’è chi sta molto peggio, finirò per reprimere e giudicare negativamente ogni mia sensazione, finirò per vergognarmi di ciò che sento! Così smetterò di comunicare emozioni, rischierò addirittura di congelare l’ascolto di me stesso, di non ascoltare più il mio corpo vivo e vitale.
Ciò può provocare somatizzazioni e disturbi d’ansia molto forti. Se pensiamo all’emozione come energia in continuo movimento e al corpo come un contenitore, si può facilmente immaginare come, in un corpo senza sfoghi, sfiati e vie di uscita, l’energia possa rimbalzare e accelerare continuamente, fare danni e trasformarsi in ansia e panico. In questo quadro, il dialogo esterno diventa un dialogo interno: i protagonisti sono sempre gli stessi però. C’è una parte bambina che prova una sensazione e sente di volerla comunicare e una parte genitoriale che non la accoglie, la giudica e la mette in un paragone del tutto arbitrario e inutile con altre situazioni. In tutto questo, la parte affettiva è esclusa, quella adulta è in ferie e il bambino riceve una frustrazione gigantesca ad un suo moto naturale.
Prendiamo un esempio vicino a noi in questo strano 2020. Moltissime persone, negli ultimi mesi, hanno sentito noia e l’hanno espresso. Le bordate genitoriali indignate sono arrivate copiose. Cos’è la noia di fronte alla tragedia in corso? Come è possibile esprimere un sentimento così futile? Che vergogna!
Ho provato a domandarmi quale sarebbe stata la reazione che mi avrebbe tenuto tranquillo e non avrebbe condotto i miei polpastrelli sulla tastiera del PC per scrivere questo articolo. Quale risposta avrebbe tenuto lontano il mio bambino interiore dal ricordo spiacevole di emozioni frustrate e permessi non dati? La risposta è semplice: accoglienza, ascolto e le parole del genitore affettivo. “Capisco la tua noia, deve essere difficile stare da soli, non sapere cosa fare, non potere vedere gli amici, non potersi dedicare a quell’hobby a cui tieni tanto”. Si può abbracciare anche con delle semplici parole, tranquillizzare la parte emotiva e far emergere una parte adulta (che c’è se non stiamo parlando con un bambino di cinque anni!). A quel punto, avendo dato un permesso, avendo accolto e ascoltato, si possono introdurre anche discorsi di responsabilità sociale: “Dai ci si annoia ma è un gesto importante per il prossimo e per il futuro del mondo” e ricordare le cose positive e le fortune: “Guarda grazie alla tecnologia puoi sentire e vedere gli amici e per fortuna sei in salute”.
Lo scopo è lo stesso, il modo è molto diverso e il risultato della comunicazione è decisamente più efficace, rispettoso e con una probabilità molto maggiore di ascolto e comprensione.
Tutte le sensazioni e le emozioni hanno il diritto di esistere e di essere accolte, tutto il resto può essere introdotto soltanto dopo che quel “sentire” ha avuto un’adeguata accoglienza e una risposta affettiva.