La sospensione del giudizio

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Che cosa ha a che fare un concetto che può sembrare squisitamente filosofico – la sospensione del giudizio, per i greci “epoché” – con il benessere psicologico? Tutto.

Mai come oggi osservo quanto le categorie del mentale (il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, il senso del dovere, il buono e il cattivo, ecc.) portino a saturazione e condizionino il sentire e la condotta delle persone. Arrivando, inevitabilmente, a produrre sofferenza. Una sofferenza dettata dal fatto che, nell’estremo tentativo di controllare una realtà complessa, caotica, contraddittoria, a tratti incomprensibile e spaventosa, l’essere umano si appella allo strumento che, per eccellenza, è vocato al controllo: la mente razionale. Perdendo completamente di vista che il bisogno di analizzare e di governare il mondo interno ed esterno sposta l’attenzione da ciò che, in verità, rappresenta la nostra opportunità di vivere in armonia con noi stessi e con tutto il resto: la presenza attenta, consapevole, l’ascolto non giudicante di ciò che ci accade, istante per istante. L’amplificazione del mentale è qualcosa che, nel nostro tempo, ha acquisito maggiore intensità forse, come dicevo, per un crescente bisogno di controllo a fronte di una realtà via via più complessa; forse perché l’essere umano ha perso, parallelamente, sempre di più il contatto con il suo sentire e con i misteri della vita. Un mentale ipertrofico e ingestibile, a fronte della difficoltà a stare con il proprio mondo sensoriale ed emotivo, ha portato all’esacerbazione di molti disturbi (di tipo ansioso o volti alla ricerca di un’anestesia del proprio malessere).

Le persone che lavorano con me sanno quanto io insista sull’importanza di non identificarsi con (ovvero non credere ciecamente a) i contenuti mentali che hanno come obiettivo quello di classificare e dominare la realtà. Ma gli ambiti in cui si manifesta un tentativo di controllo, di categorizzazione della mente razionale sono più sottili di quanto si possa immaginare.

Elisabetta, che da un anno lavora con me sull’elaborazione di un passato fortemente traumatico, ha ormai imparato a dare ascolto al suo sentire. Ciclicamente, tuttavia, a fronte di episodi particolarmente “stressanti”, le capita di provare un disturbo, sempre uguale: quando avverte un rumore che lei giudica eccessivo, le scoppia un mal di testa debilitante, che la costringe a letto. Elisabetta è consapevole che, probabilmente, se arriva a quel punto è perché non riesce a mettere i suoi bisogni prima di tutto il resto e si forza a vivere situazioni che preferirebbe evitare. Il mal di testa la “autorizza” a prendersi il suo tempo e il suo spazio. Ma, come nell’ultima occasione, ci sono circostanze in cui non può sottrarsi a certi eventi, per varie ragioni. Mi chiede, in questi casi, come possa fare.

La invito a tornare al momento in cui, l’ultima volta, ha percepito il rumore che ha “dato il via” al suo mal di testa. Le chiedo di osservare cosa fa il suo corpo al ricordo di quel momento.

Elisabetta nota che si irrigidisce, si contrae. Come a voler opporre una resistenza al disturbo che arriva dall’esterno. Le propongo quindi di stare in contatto con quel rumore e di sospendere, per un attimo, il suo giudizio. Di non valutarlo come troppo, come eccessivo, come disturbante, ma come una semplice vibrazione, neutra.

Elisabetta si accorge che, se lascia andare il suo giudizio, la vibrazione può attraversarla senza provocare in lei un dolore. Per lei fare l’esperienza di poter tollerare qualcosa che sembrava impossibile accettare è illuminante.

Le rimando che anche nell’atto percettivo c’è una componente cognitiva, valutativa: ciò che i nostri sensi filtrano della realtà esterna è sottoposto in modo implicito, immediato, ad un’analisi, a una valutazione. Se riusciamo ad accogliere ciò che riceviamo il più possibile senza pre-giudizio, possiamo abbattere le nostre resistenze e rendere l’esperienza meno dolorosa, almeno in parte.

Consideriamo insieme che, in effetti, quando non abbiamo alternative e dobbiamo far fronte a un evento che non possiamo modificare, è più utile affrontarlo senza chiusure o con le minori resistenze possibili.

Una vera sfida in un’epoca in cui ciò che va per la maggiore è l’idea di dover prendere “di petto” le situazioni, reagire, combattere, imporre la propria volontà.

Ma, come recita un detto, bisogna aver la saggezza di distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare. In quest’ultimo caso, se affrontiamo l’esperienza con accettazione, rinunciando alla nostra mania di controllo, ne trarremo soltanto giovamento.

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